Dario
Lombardo al Chicago Blues Festival 2014 a cura di Michele Lotta
Il
2014 è stato un anno fortunato per il Blues italiano. La quantità e la
qualità delle registrazioni pubblicate è stata notevole. È stato anche
l’anno della prima partecipazione da headliner di un musicista italiano
al Chicago Blues Festival, un evento che merita di essere
sottolineato. Si tratta di Dario Lombardo, chitarrista torinese per
anni al fianco di Phil Guy con la sua storica Blues Gang, la cui vita
artistica vi abbiamo narrato in un’intervista di qualche anno fa (vedi
“interviste”).
Dario si colloca in quel ristretto novero di musicisti
che hanno dato vita al movimento del Blues in Italia; un veterano che
si esibisce, senza soluzione di continuità, dai primi anni ottanta. Ha
girato parecchio ed è stato altre volte nella capitale mondiale del
Blues esibendosi in diversi clubs (a Chicago c’è da anni una comunità
di italiani dediti al Blues...) e facendo anche delle apparizioni al
Festival (la prima risale al lontano 1987).
L’ho intercettato per fargli qualche domanda sull’esibizione di
quest’anno e con il segreto intento di poter annusare l’aria che si
respira oggi nella Windy City.
SB: Dario, come sei arrivato alla
partecipazione al Festival? Raccontaci come sei stato contattato e se
c’è stato un
motivo particolare...
DL:
Innanzitutto ciao, è un piacere tornare su queste pagine. Allora, la
prendo un poco larga: tutto in effetti nasce nel 1987, quando per la
prima volta un gruppo di musicisti blues italiani viene chiamato a
Chicago dall'organizzazione del Blues Festival. Viene scelto, meglio,
per partecipare ad una serie di eventi collaterali al Festival
organizzati in collaborazione con il Pistoia Bluesin'. Il gruppo era la
Model T Boogie, ovvero Crea/Becattini/Lombardo/Pavin/Bertagna. Nostro
referente era in quei giorni Barry Dolins, anima organizzativa dello
Chicago Blues Festival: fu lui ad organizzare quello che, allora non lo
sapevamo, doveva essere il nostro primo concerto con Phil Guy. Negli
anni poi ho rivisto Barry molte volte, in pratica ci siamo incontrati
ogni volta che son stato a Chicago con Phil, con cui tra l'altro mi
vide suonare proprio al Festival nel 2003 e nel 2007. Come tu sai Phil
è scomparso nel 2008: da allora tutti gli anni organizzo nel mese di
aprile quello che insieme a sua moglie Jeniece Guy ed a Lisa Mallen,
l'ex manager, abbiamo chiamato Phil Guy International Day, ovvero una
serie di concerti realizzati un po' in tutto il mondo dai musicisti che
suonavano con lui. Così nell'estate del 2013 ho pensato che sarebbe
stato bello poter riunire la sua band, la Chicago Machine, in un
concerto per Phil allo Chicago Blues Fest. Ne ho parlato con Delores
Scott, con cui collaboro dal 2008, e poi con Barry Dolins, e da lì è
nato tutto. Nel novembre di quell'anno sono stato a Chicago ed abbiamo
iniziato a definire i contorni della cosa, che si è poi concretizzata
nei mesi successivi. La sorpresa per me è arrivata quando mi hanno
comunicato che io sarei stato band leader ed headliner del concerto:
questo non era assolutamente previsto ed è stato un piacere ed un onore
grandissimo.
SB: E’ stato emotivamente diverso in questa
circostanza rispetto alle altre volte che ti sei affacciato da quel
palco?
DL: Suonare è una cosa
strana, a volte: voglio dire, dopo molti anni di lavoro si potrebbe
pensare che uno salga sul palco in automatico e senza particolari
emozioni, che poi arrivano dalla musica e dal pubblico e da quel che
hai dentro, quel che vuoi raccontare. In parte è così, certo, ma non
del tutto e non sempre. Quel giorno ero felice, non c'era nulla che
potesse guastarmelo: ero lì a ricordare un amico ed un maestro, e certo
avevo il carico di essere il primo italiano in cartellone e di dover
guidare la band, ma la macchina era così perfettamente oliata che tutto
è andato benissimo, grazie all'aiuto di tutti ed in particolare di
Delores Scott, Liz Mandeville, Lisa Mallen e Bob Mandarino. E poi, non
sono certo religioso né new ager, ma quello era lo stesso palco su cui
avevamo suonato insieme, in qualche modo Phil era con noi, e si è fatto
sentire.
SB: Qual è stata la
formazione che hai proposto al Festival?
DL: Come ti dicevo, l'idea iniziale era di
riunire la Chicago Machine, il gruppo di Phil Guy, cui affiancare una
serie di ospiti. Come sempre accade la Chicago Machine ha avuto negli anni
formazioni molto diverse, e quindi dovendo scegliere chi chiamare la
decisione è stata quella di riunire i musicisti che avevano suonato
proprio su quello stesso palco, il Front Porch Stage, nel 2007, e
quindi Ronnie Hicks alle tastiere, Hassan Khan al basso e Mark
Diffenderfer alla batteria. Non sono riuscito a contattare
Doug Williams, storico chitarrista di Phil, sembra
sparito, e così la scelta per la seconda chitarra è caduta su Bob
Mandarino, chitarrista dell'Indiana di evidenti origini nostrane. A
guidare il tutto, oltre a me, la voce di Delores Scott. E infine, gli
ospiti: abbiamo chiamato, cercato, selezionato. Molti volevano ma non
c'era spazio, avevamo solo un'ora a disposizione, altri li volevamo noi
ma erano chi a New York chi altrove, così alla fine abbiamo scelto Inna
Melnikov, una violinista russa che come me era stata ospite di Phil nel
2007, Liz Mandeville, che con la sua verve ed esperienza ha portato
un'altra iniezione di energia ad un palco già estremamente adrenalico,
e poi Randy J (al secolo, Johnson), The Sultan of Soul, grande amico di
Phil. A sorpresa poi Delores Scott ha portato Rebecca Pakish White, una
cantante con cui spesso lavora, ed il Push TV Gospel Choir, che alle
fine del concerto ha letteralmente invaso l'area fotografi davanti al
palco cantando una sorprendente "I'm Happy", che ovviamente nessuno di
noi aveva mai suonato in vita sua ma che è stata gestita in modo
inappuntabile da tutti e che ha concluso in un modo dolcissimo il set
con tutto il pubblico che cantava con noi.
SB:
So che hai suonato in tanti
clubs. Puoi dirmi qualcosa sui musicisti che hai conosciuto e
soprattutto
l’atmosfera che si respira?
DL: Nei clubs di
Chicago, intendi?
Beh, negli anni mi è successo di suonare in molti locali, e di
incontrare e
conoscere molti dei protagonisti della scena musicale cittadina, e con
alcuni
di loro ho anche avuto la possibilità di suonare (mi vengono in mente
Buddy
Guy, Junior Wells, Carey Bell): con alcuni una volta sola, con altri
invece da
un primo incontro casuale è nata una collaborazione più duratura. Penso
in
questo caso a musicisti come Delores Scott, John Primer, Liz
Mandeville, che
sono le persone con cui ho lavorato in Italia ed Europa da quando Phil
non c'è
più. Con Delores ci eravamo incontrati per caso in un locale fuori
città in cui
lei suonava con i Sons of Blues, era il 2003, credo: cinque anni dopo
fu
proprio lei a sostituire Phil nel tour del febbraio 2008 che lui non
potè fare
perchè già malato. John invece lo avevo conosciuto prima, negli anni
'90, direi
dalle parti del vecchio Checkerboard Lounge: uno dei primi ricordi che
ho è di
una sera a chiacchierare ed a dire scemenze davanti al locale, lui Phil
ed io,
e di un tizio che arriva con una enorme telecamera (anni 70/80, direi)
e ci
interrompe dicendo ehi, la volete? Ottima, nuova, costa poco, solo 10
dollari,
ma non ha la batteria! (Inutile dire che se ne andò via con la
telecamera!).
Liz Mandeville invece l'ho incontrata tramite Bob Mandarino, che me la
presentò nel novembre del 2013: ero appena atterrato a Chicago, e dopo
un'ottima e ricostituente scodella di gumbo al Buddy Guy's Legends, Bob
mi
portò dall'altra parte della città, al Moe's Tavern dove Liz suonava...
quello
fu l'inizio, a febbraio sarebbe stata in Italia con noi.
SB: Che mi racconti
della comunità
italiana residente a Chicago? So che è parecchio dinamica con clubs e
musicisti
lì residenti…
DL: Sì, certo, hai
ragione. Da che il
Blues ha iniziato ad esser suonato qui da noi non sono pochi gli
Italiani che
son passati per le vie della Città del Vento. Molti sono i musicisti che
sono
stati in città, chi per periodi brevi e ripetuti, chi per più tempo. Io
personalmente ho sempre viaggiato, credo di dover stare in Italia,
perchè qui
sono nato, qui ho la mia vita e qui devo suonare: quindi vado e torno.
Altri
invece preferiscono stare lì, è ovviamente una questione di scelte di
vita e
quindi totalmente personale. In ogni modo, da che sono andato per la
prima
volta nel 1987 a Chicago si è sviluppata una pattuglia molto forte di
musicisti
Italiani, residenti e non. Devo dire che i Giapponesi sono di più, sono
tantissimi!
Se poi pensiamo ai clubs il discorso è ancora più solido: i principali
locali
sono cinque, ed i proprietari di tre su cinque sono italo-americani o
italiani,
e cioè Frank Pellegrino del Kingstone Mines, Gino Battaglia del Blue
Chicago e,
last but not least Tony Mangiullo del Rosa's Lounge. (Gli altri due
clubs
principali sono il Buddy Guy's Legends ed il B.L.U.E.S.).
SB: Dagli anni ottanta
ad oggi,
ritieni sia cambiata qualcosa? Il Blues ha sempre lo stesso fascino?
DL: Certo che
ha fascino! E poi, non
è solo fascino... E' malìa, è come mangiare pane e panelle in un vicolo
della
Vucciria, è come vivere. E la vita ha gioie e dolori, e qualcosa o
qualcuno le
deve raccontare, no? Pensa a Mississippi John Hurt, questo faceva, e
non era
troppo diverso dai nostri cantastorie, in fondo. Lui aveva una canzone
per ogni
occasione, dal matrimonio al funerale: certo, dagli anni 20 del XX
secolo ad
oggi le cose sono molto cambiate (per fortuna, spesso!), ma il fondo
delle
vicende umane è lo stesso, quindi una musica come il blues trova sempre
occasione per raggiungere nuove persone. Il pubblico ai concerti non è
sempre
di teste bianche, ci sono tanti giovincelli che si accostano, comprano
dischi o
seguono corsi di strumento. Il sound che era nuovo negli anni 80,
quello che
allora colpiva per la sua freschezza e novità... beh, ora è vecchiotto,
aspetta
un revival che prima o dopo arriverà, ovvio. I suoni attuali più
seguiti mi
paiono guardare anche più indietro, ad un tipo di ritmi ed
arrangiamenti
diversi, meno funk e più tradizionali, in qualche modo. Ma in realtà
c'è spazio
per tutto.
SB: Hai notato un interesse
costante dei giovani neri nei confronti del Blues o gli appassionati
sono più
adulti... e più bianchi?
DL: Entrambe le cose,
dipende un poco dai periodi ed anche dai luoghi. Ad esempio a Chicago
trovi di tutto, pubblico misto e di tutte le età. Fuori città o in
altri stati le cose cambiano, ci sono più bianchi in sala e decisamente
dai quaranta in su. Anni fa poi anche a Chicago il pubblico era più
attempato, soprattutto i giovani neri non si facevano tanto vedere. Ti
ricordi Phil Guy quando cantava “Lord, this rap music, I tell you has
no song”? ("Last Of The Blues Singers" era la canzone)... ecco, negli
anni 90 i giovani pensavano quasi esclusivamente al rap, ora è un poco
cambiato.
SB: Al netto dei
personaggi di
grande spessore che ancora calcano i palcoscenici, credi che le nuove
realtà
americane abbiamo qualcosa in più rispetto al Blues che si suona a casa
nostra?
DL: Beh... direi che
questa è la
classica vexata quaestio! C'è il vecchio discorso che questa è una
musica
americana, che noi non parliamo inglese etc. etc., sai a cosa mi
riferisco. Bene,
il problema primo è che ogni musica ha un suo linguaggio, e quindi
qualsiasi
sia la tua nazionalità è quello che devi conoscere per essere in quel
genere.
Se vai a sentire i dischi di gruppi rock-blues nord europei anni 60 e
70 ti
trovi di fronte a musicisti che avevano l'inglese come seconda se non
come
prima lingua, ma magari il prodotto era scadente... Spesso anche negli
USA ed
anche adesso mi capita di sentire musicisti che non hanno una
conoscenza della
lingua del Blues. Può sembrare strano, ma è così. Certo, tutti ne hanno
un'infarinatura, ma da lì a suonarlo il passo è lungo. E' un discorso
lungo,
terreno minato. Lì è comunque il loro territorio, la loro cultura
musicale, e
loro badano bene a difenderla, anche se non è sempre così. Lì ci sono
anche i
grandi numeri, quasi tutti sanno tenere in mano uno strumento o
cantare, e sono
veramente tanti! Quello che difetta da noi è la diffusione della
cultura
musicale, sia in senso lato che proprio: oggi però le cose sono molto
cambiate
rispetto a venti o trent'anni fa. Le teste sono diverse e ci sono
conoscenze
diverse. Pensa alla possibilità di studiare lo strumento: quando
iniziai io,
nel 1972, non c'erano scuole di musica moderna, mentre ora i ragazzi
hanno
scuole in cui trovano muscisti esperti artisticamente e
professionalmente. E
poi c'è internet, una cosa che ti porta subito testi, spartiti e video
didattici sulla scrivania: ovvio, nessun tutorial sostituirà un
maestro, ma è
già un inizio diverso rispetto ad un tempo, no? L'importante è non
seguire
stereotipi o stili falsi, fuorvianti... La prima cosa da dire è che per
fare una
cosa devi essere spontaneo e credibile. Ovvero, per cantare il Blues
non devi
cercare di essere roco e rauco apposta, ma cantare come mamma ti ha
fatto, e
cioè con la tua voce, senza scimmiottare timbri e sonorità che non hai,
perchè
questo si vede subito e toglie credibilità a quel che fai. Lo stesso,
quando
suoni, qualsiasi sia lo strumento, devi conoscere la storia da
raccontare e
dirla. Ovvero, conosci gli stili e poi suona quel che le mani suonano.
E questo
è valido a prescindere dal passaporto che possiedi.
SB: Siamo al termine e
mi pare
doveroso chiederti circa i tuoi progetti.
DL: Suonare, conoscere
nuove cose ed
insegnarle ai miei allievi. Il progetto della nuova Jazz School Torino
è
qualcosa in cui sono molto impegnato. E poi ci sono i dischi, ovvio. I
miei
ultimi lavori (“The Pop Life Studio Sessions, voll. 1 & 2”) sono
del 2013,
quindi comincia ad esser tempo di pensare a qualcosa di nuovo.
Presentati dalle
note di copertina di Edoardo Fassio, sono due CD molto diversi tra loro
che
riassumono un poco il mio modo di scrivere le canzoni e di pensare la
musica.
Tutti brani originali, tranne due di Phil Guy, uno per volume. I
musicisti sono
quelli della mia famiglia musicale, quelli con cui da tempi ormai
remoti
condivido palco e chilometri: quindi Andrea Scagliarini, Massimo Pavin e
Massimo
Bertagna come ossatura della band, cui vanno aggiunti Valentina Comi
(forse la
prima donna in Italia ad aver suonato il piano blues), e poi Marco
Rafanelli e
Marco Vintani alle seconde chitarre. In qualche pezzo ho anche
Giancarlo Crea
come ospite, e quindi lì abbiamo quattro quinti di Model T Boogie... Il
volume 1
ha un suono più tradizionale, registrato praticamente in diretta con
formazione
ed arrangiamenti decisamente old style... molta South Side, insomma. Il
volume 2
invece ha molto più lavoro di studio e brani diversi, che ricordano un
poco i
suoni di Searchin For Gold, il disco del 2003 prodotto da Ernesto De
Pascale.
(Il disco si chiude proprio con la canzone che ho scritto per ricordare
Ernesto, “Deep Into Your Eyes”, registrata a Pistoia con la formazione
della
Blues Gang che Ernesto volle per Searchin For Gold nel 2003 arricchita
dalle
presenze di Nick Becattini, Sergio Montaleni e Giulia Nuti). Da queste
sessions
sono rimasti fuori diversi pezzi, e dal 2012 ad oggi altri sono stati
scritti,
quindi
credo proprio che da qui a poco
tornerò in studio con la Blues Gang per registrare il nuovo materiale.
Per quanto riguarda i concerti
invece la Blues Gang è disponibile tutto l'anno come sempre, ed in
arrivo ci
sono Randy Johnson, che sarà qui a febbraio 2015, Delores Scott, con
cui
celebreremo il Phil Guy Day il 18 aprile al Folk Club di Torino. Infine
per
l'estate è prevista la presenza di Liz Mandeville.
SB: Grazie Dario e… alla
prossima.
DL: Grazie Michele, un
saluto ed un
abbraccio a te ed a tutti qui su Spaghetti & Blues.
Crediti foto dall'alto:
-photo Dario Lombardo/Liz Mandeville Chicago 14 giugno 2014.
il cartellone del Festival.
-photo Connie Carroll. Chicago, 8 giugno 2014, di fronte al Buddy Guy's
Legends.
intervista con Urban Grind TV, da sin. a dx: Xochi Ramirez Onohan,
D.L., Lisa Mallen.
-photo Connie Carroll. Chicago blues Festival, 14 giugno 2014.
Dario Lombardo & Delores Scot
-photo Jennifer Noble. Chicago, 8 giugno 2014, Buddy
Guy's Legends: cerimonia di induzione di Phil Guy nella Chicago Blues
Hall of Fame.
da sin a dx: Michael Packer, Greg Guy (figlio di Buddy), Lisa Mallen,
D.L.
-photo Lynn Orman Weiss. Chicago, 9 giugno 2014, Star Planet TV Studios.
da sin a dx: Hollee Thee Maxwell, D.L., Michael Packer.
-photo Leslie Joseph. Chicago Blues Festival, 14 giugno 2014.
front Porch Stage, da sin a dx: Liz Mandeville, Mark Diffenderffer,
D.L. Hassan Khan.
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