Enrico "Mad Dog" Micheletti (1951-2008)
a cura di Michele Lotta con la collaborazione di
Amedeo Zittano
Ci
sono uomini il cui spirito artistico si fonde a tal punto con la vita reale,
quella di tutti i giorni, da rendere impossibile agli altri identificarne i
confini. All'interno di questa tipologia si colloca Enrico "Mad Dog" Micheletti,
un bluesman atipico la cui notorietà non è stata all'altezza della sua classe.
Enrico nasce a Bolzano nel 1951. All'età di dieci
anni imbraccia per la prima volta una chitarra e, grazie alla guida del padre,
ne impara i rudimenti. Alla fine degli anni sessanta mette su il primo gruppetto
fatto da giovanissimi, i Black Fire, con i quali si esibisce nelle
discoteche della zona.
La natura di uomo di confine però emerge ben presto e così nel 1970 Micheletti
inizia un lungo peregrinare che parte dalla Turchia per passare al Belgio
"girovagando", al contempo, in gran parte dei paesi del nord Europa. In questi
anni dà vita alle band: Sunshine Blues Band e Last Cadillac.
Ma è in Italia, a Roma, che prende corpo la prima formazione della quale si
occuperanno le riviste di settore, la Hard Times Blues Band (nome preso in
prestito da Hard Time Blues di Ida Cox), con la quale si esibirà spesso al Folk
Studio (mitico tempio trasteverino della musica nella capitale, ndr.).
Micheletti trascorre un periodo tra Modena e Reggio Emilia, quindi un breve
ritorno in Belgio fa da preludio all'esperienza più importante del musicista:
l'America. Nel 1984 vola in Canada. Qui suona in lungo ed in largo per tre anni
(prevalentemente country e blues) collaborando, tra gli altri, con Big Mama
Thorton e Big Moose Walker. Tornato in patria nel '89, registra il primo lavoro
da solista: "Out of Bones".
Trascorre gli anni novanta suonando dappertutto, dalle Maldive alla Grecia. In
questo decennio avviene una maturazione interiore molto profonda. Incontra la
musica e la cultura indiana abbinando al caratteristico suono dell'inseparabile
dobro anche quello, altrettanto esotico, del sitar.
Nel '93 incide il secondo disco da solista: "Sunset Feeling".
L'inizio del nuovo millennio lo vede protagonista della scena musicale
italiana. Presso lo studio Esagono di Rubiera (RE) incontra Fabio Ferraboschi e
Fabrizio
Tavernelli con i quali allestisce i "Roots Connecton". Fabio suona il basso, l'Hammond,
la chitarra ed è un esperto di tecniche digitali; Fabrizio è anch'egli
polistrumentista, suona: batteria, tastiere e chitarra. Il Karma (per usare un
termine che sarebbe stato caro a Micheletti) prodotto dall'unione dei tre
musicisti è speciale. Tutti sono animati dalla scoperta di nuovi orizzonti che
partono dal blues del Delta tornando, rigenerati attraverso una ricerca
emozionale, all'origine per "riconnettersi alle radici".
Nel 2002 nasce il loro primo album, "Roots Connection", preludio ad un gran
numero di concerti che li renderanno noti agli appassionati italiani.
Due anni dopo Enrico Micheletti incide il suo terzo CD, “Blues Interview”,
copodrotto dall'amico e compagno d'avventura Fabio Ferraboschi.
Ad aprile del 2006 la condizioni di salute di Enrico, da tempo precarie, si
aggravano. I medici si pronunciano prospettando l'unica soluzione possibile: il
trapianto del fegato. Nella Pasqua dello stesso anno si sottopone
all'intervento. La vita sembra tornare alla normalità. Continua ad esibirsi dal
vivo e nel 2008 riceve, con i Roots Connection, il premio per la migliore
colonna sonora al Nonantola festival. Simultaneamente registra il nuovo album
della band, "Animystic", destinato a diventare un autentico testamento
artistico. Ma la vita non gli sorride neppure in quest'ultima circostanza: non
vedrà mai la pubblicazione del nuovo CD. Il 4 dicembre 2008 Enrico Micheletti
lascia questa terra a 57 anni in quel di Grosseto, città nella quale
riecheggeranno per sempre i suoi ultimi blues.
"Animystic" (recensione su KBLF, http://www.webalice.it/hklotta) vede la luce
nei primi mesi del 2009 ultimato da Ferraboschi e Tavernelli.
S&B esprime particolare gratitudine ai due musicisti che, rispondendo al nostro
appello, hanno accettato di parlarci di Enrico per disegnare un ritratto più
dettagliato del bluesman più geniale dello spaghetti blues.
Ringraziamo l'agenzia Lunatik Stampa di Bergamo
per la preziosa e gentile collaborazione.
Sarà un piacere per noi, nonchè un servizio
assolutamente utile a chi segue il Blues in Italia, ricevere e pubblicare le
testimonianze di chi ha conosciuto Enrico "Mad Dog" Micheletti come uomo e come
artista.
ENRICO MICHELETTI, IL BLUESMAN di
Fabio "Bronski" Ferraboschi (Roots Connection)
Ero appena tornato da un tour promozionale in Brasile, stavo controllando la
posta elettronica e non vedevo l’ora di andare a cena. Squillò il cellulare. Era
Paola, la compagna di Enrico Micheletti. “Enrico è morto stanotte…!!”. Io ero
rincoglionito dal jet leg e non sapevo bene cosa cazzo dire… Non mi sembrava di
avere capito bene… “Enrico è morto!!!???” ho ripetuto come un ebete. “Si è morto
non ce l’ha fatta…”.
La prima volta che ho sentito parlare di Micheletti stavo facendo l’assistente
durante un mix in un famoso studio di Modena. Era intorno al 1991. Era l’Umbi
studio, allora chiamato Medicina Blanche. Non so chi fosse l’artista che stavamo
mixando, ma ricordo chiaramente la voce e il volto di Franco Ceccarelli (Equipe
84) raccontare di un grandioso concerto blues tenutosi verso 1980 in provincia
di Reggio Emilia. Il fulcro del concerto a suo dire era stata la performance di
questo leggendario chitarrista di Bolzano che faceva veramente “paura”. Mi aveva
colpito la faccia che aveva quando descrisse il concerto. Sembrava estasiato.
Come se in quel concerto avesse assistito a un miracolo.
Enrico morto!!!
Tutta notte mi passò da una parte all’altra del cervello la telefonata di Paola.
La mattina dopo richiamai Paola per cercare una conferma a quello che a quel
punto mi sembrava solo un brutto sogno. Il trapianto di fegato riuscito
pienamente non era stato sufficiente. Il ceppo virale di Epatite C del quale
soffriva aveva cambiato improvvisamente forma. Una forma virale incurabile.
Paola lo sapeva. Lo sapeva anche Enrico. Doveva uscire a giorni il nostro disco
nuovo e lui sapeva che non lo avrebbe mai avuto tra le mani. “Dai eh, che quando
torno dal Brasile si attacca…” “Certo…”
Era molto tranquillo durante quell’ultima telefonata. Troppo tranquillo.
Nel 1992 entrò come socio nello studio di registrazione Esagono, Arcangelo
Cavazzuti detto Kaba. Kaba sostituì un altro socio che non essendo del settore
vedeva malissimo il lento e sanguinoso avviamento della struttura. Kaba era (è)
un batterista. Aveva suonato in tante situazioni ed era stato il batterista di
Vasco Rossi, nel periodo di “Colpa d’Alfredo” verso la fine dei ’70. Kaba fu la
seconda persona che mi parlò di Enrico. Aveva
militato
con lui proprio in quei fine ‘70, nella sua celebre formazione: la Hard Times
Blues Band.
Altri compagni di avventura di quella formazione furono Glauco Zuppiroli (ora al
contrabbasso con Vinicio Capossela) e Vincenzo Murè alle tastiere (ora con
Gianni Morandi e i Ridillo).
Durante quel primo periodo di avviamento dello studio “Esagono” nei buchi del
“conto terzi” cercavamo di fare produzioni molto particolari, produzioni che
sostanzialmente ci piacessero, mai pop.
Producemmo la nostra band “Frontera” che firmò in seguito con Mescal, producemmo
una band di Correggio i “Mamamicarburo” che di lì a poco firmò con la Ricordi, e
producemmo anche un gruppo di combat folk chiamato Modena City Ramblers.
Un giorno Kaba venne in studio dicendo che aveva rivisto dopo dieci anni Enrico
Micheletti che suonava da solo in un locale poco distante da Reggio Emilia.
Enrico gli aveva fatto sentire del materiale e Kaba ne era entusiasta.
Dopo qualche giorno Enrico arrivò in studio. Enrico arrivava sempre in maniera
blues. Aveva un camper un cane o un paio di cani e un sacco di chitarre che
voleva comunque sempre scaricare dal furgone. Una volta aperta la custodia della
sua dobro la mia vita non fu più la stessa. Come cazzo suonavo stò uomo… E
suonava da dio pure l’armonica.
Ci fece sentire alcuni pezzi tutti finiti poi immancabilmente sul suo disco
“Sunset Feeling”. Quello che mi colpì più di tutti fu “I’m gonna Move”, un
vero capolavoro.
Enrico rimase tutto il giorno e anche tutta la notte. Lui e la sua compagna ci
davano veramente dentro col vino e noi non eravamo da meno. Quella notte la sua
dobro suonò e risuonò tutto lo scibile del country blues che lui, col suo
fingerstyle incredibilmente forbito ma comunque grezzo, rendeva pezzi unici. Il
suo timbro vocale tra Clapton, JJ Cale, Mark Knopfler, Tom Waits, era esaltante.
Producemmo Enrico anche se l’impresa si rivelò alquanto ardua. Produrre del
blues in Italia e una sconfitta alldowntheline. Nessuno ti caga, a nessuno
gliene frega un cazzo e la piccola nicchia che lo segue è una “nicchia” che ha
già un altro “grande bluesman italiano” da venderti.
Il disco venne realizzato tra il ’93 e il ’95. Lo registrammo in svariate
sessioni e alla fine io ed Enrico dopo mesi di lavoro alle 5 del mattino di un
venerdì qualsiasi stremati dal vino e dalla voglia di finire chiudemmo il
mastering.
In quel periodo diventammo molto amici, anche se aveva un carattere difficile.
Però musicalmente andavamo d’accordissimo. Firmammo anche qualche brano a
quattro mani. Al disco avevano partecipato come musicisti oltre a me alla
chitarra acustica e al basso, Luca Orioli all’organo Hammond, Kaba alle batterie
e alle percussioni, Claudio Morselli al basso, Lucia Tarì ai cori. Alla fine il
disco uscì per la nostra etichetta. Fu distribuito da un piccolo distributore e
la promozione fu alquanto esigua.
Ogni volta che si cercava di promuoverlo qualcuno che lo conosceva ci intimava
di desistere dal farlo. Molti addetti del settore non sopportavano il suo
carattere spesso arrogante e troppo insistente. Era una persona inquieta, spesso
borderline. Il bere non lo aiutava in questo.
Mi sono sempre chiesto quale sia mai stato il carattere di Eric Clapton, o di
Bob Dylan, gente comunque con un talento non differente dal suo. Quando suonava
però diventava un’altra persona.
Tutte le feste organizzate presso lo studio Esagono vedevano una sua costante
presenza che verso le tre del mattino portava a gloriose jam session tra
tutti i musicisti anche di calibro internazionale che passavano di lì.
Era
magnetico, ti tirava dentro. Suonare con Enrico era un’esperienza bellissima.
Trainava il carro lui, ma sia che tu fossi bravissimo o una mezza sega, ti
faceva suonare “come si deve”.
Mi manca moltissimo il fatto di suonare con Enrico.
Per un certo periodo gli feci anche da agente, cercando di farlo suonare il più
possibile dove potevo e come potevo. Oltretutto gli devo il fatto che ad un suo
show case conobbi la mia attuale compagna. Partecipò spesso anche come session
man in studio di registrazione. Suonò la slide in un brano dell’LP dei Nomadi
“La settima Onda”. Anche i Gang, grandi suoi estimatori, lo vollero al dobro in
un brano del loro LP “Una Volta Per Sempre”, il brano era “La Pianura dei Sette
Fratelli”.
Anche Fabrizio Tavernelli che bazzicava spesso lo studio Esagono per registrare
il suo Folk Acido coi suoi fidi A.F.A. lo volle per registrare il sitar (altro
strumento che suonava con la facilità che uno ha nel masticare una gomma
americana) in un brano del suo secondo LP “Fumana Mandala”.
Il fatto di averlo sia come artista in rooster sia come amico fu deleterio.
Litigammo spesso.
E’ difficile vendere una cosa che non sei in grado di vendere. E soprattutto che
molti non vogliono assolutamente comprare.
Un giorno arrivò in studio minacciosissimo, con un giubbotto di pelle da
metallaro e mi disse che gli dovevo una registrazione. C’era con lui un
contrabbassista di Forlì, tale Massimo Sbaragli. Io lo feci accomodare in sala e
lui in diretta mi regalò un bel pomeriggio di emozioni tra dobro, acustica,
armonica e contrabbasso tutto registrato direttamente su DAT e senza
sovraincisioni. Gli feci una copia di quel CD e lui sparì per qualche anno dalla
mia vita. Quel CD fu anche il mio regalo di Natale per parecchi amici.
Era oramai il 1999 e io ero un po’ agli sgoccioli nel rapporti coi miei soci.
L’anno successivo uscii dallo studio Esagono. Costruii un altro studio di
registrazione nel fienile della casa dei miei e ricominciai a produrre cose
strane. Lo studio “Busker”. Intanto l’aria era cambiata e c’era in giro una
musica sperimentale che non mi dispiaceva affatto. Fabrizio Tavernelli era
sempre al mio fianco nelle speculazioni elettroniche di quel periodo.
Un giorno Enrico mi telefonò. Mi voleva come fonico per registrare un live della
Hard Times Blues Band. Aveva riformato la band senza nessun membro originale e
soltanto per un concerto. Il concerto si sarebbe tenuto nel cortile interno si
una villa seicentesca vicino a Milano.
Andai e fu come un ritrovarsi di vecchi amici che non avevano mai avuto alcun
tipo di scazzo. Mi confessò di essere ammalato. Aveva smesso di bere. Aveva una
nuova compagna. Era andato ad abitare a Grosseto. Una vita nuova insomma.
Quella sera il concerto non fu un granchè, soprattutto perché la band non era
assolutamente alla sua altezza. Nonostante tutto c’era un biglietto d’ingresso e
il cortile era pieno di gente. Ero contento per lui, anche se gli confessai che
la parte del concerto che mi era piaciuta di più era quando si era esibito da
solo. Aggiunsi anche che, secondo me, da quel momento sarebbe stata la sua
dimensione artistica migliore.
Una sera capitò a fare una serata in un rinomato locale di Correggio “La
Galera”. Finimmo la serata con una jam che coinvolse me al basso e Fabrizio
Tavernelli alle percussioni. Tra i suoi bicchieri di acqua gassata (incredibile
ma vero) e i nostri di vino nacque l’idea di mischiare il delta blues con
l’elettronica. D’altra parte l’elettrificazione del blues da parte della Chess
era avvenuta nello stesso modo. Noi al posto degli amplificatori avremmo
aggiunto dope, campionamenti, casse in quattro e synth. Eravamo pretenziosi,
sicuramente. Ma avevamo una gran voglia di sperimentare sonorità che facessero
vibrare anche i nostri animi inquieti.
L’idea
piacque agli organizzatori della rassegna Mundus, una rassegna di musica etnica
che ha luogo coinvolgendo tutti i comuni della provincia di Reggio Emilia. Ci
diedero un paio di date e quello fu il nostro la.
Di li a poco io e Fabrizio ci trovammo per creare le basi sulle quali Enrico
avrebbe dovuto jammare i tradizionali Delta. Qualche giorno dopo ci raggiunse
Enrico. Facemmo un paio di prove e dalla sua espressione non mi sembrava molto
esaltato. Insistetti durante i giorni che rimase a casa mia per le prove. Cercai
di fargli capire che era assolutamente necessaria questa svolta per la sua
carriera. Poi c’era il problema di uscire col nome di una band. Questa cosa
all’inizio si scontrò col suo ego peggiore. Alla fine le date furono un successo
di pubblico e di critica, ed Enrico dovette ricredersi.
Lo step successivo fu la registrazione del disco. Preferimmo lavorare separati.
Noi a Rubiera e lui a Grosseto. Legammo le nostre basi elettroniche al suo
suonato e cantato. Non credevamo alle nostre orecchie sentendo il risultato.
Enrico ascoltò il disco finito e rimase molto colpito per i tappeti sonori che
si erano creati fondendo le sue slide e la sua armonica al resto. Poi c’erano le
voci trattate con gli harmonizer che lo facevano letteralmente impazzire.
Trovammo immediatamente un etichetta decisa a pubblicare il materiale (Baracca e
burattini/Edel). L’etichetta rilanciò chiedendoci di rielaborare un brano di
Nick Drake che sarebbe finito in una compilation a lui dedicata. Così a
brevissimo nel 2003 uscì “Roots Connection”.
Incominciammo subito a fare concerti con questa formazione ed Enrico, ancora più
imbrigliato in uno schema nel quale doveva rispettare pause e riff, si comportò
da vero professionista. Suonammo parecchio in giro. Molte radio passarono i
brani. Anche radio DJ nella trasmissione di Alessio Bertallot propose nel
suo palinsesto una “Crossroads” del tutto reinventata.
Passammo da palchi enormi (Social Forum di Firenze) a piccole feste campestri,
sempre sostenuti da gente incredula di sentire questa strana e innovativa
commistione di suoni. Uscirono anche parecchie recensioni con alterna fortuna.
Da una parte i tradizionalisti del blues videro come un tentativo di stupro
questo progetto. Dall’altro gli “elettronici” più radicali come un misero
tentativo d’inserire un elettronica un po’ troppo stereotipata secondo i loro
canoni su un genere poco originale. Per fortuna uscirono anche numerosissime
recensioni che intravidero in questo progetto un qualcosa di veramente nuovo.
Nel 2004 Enrico venne invitato a fare numerosi concerti in giro per la penisola.
In una delle sue telefonate molto blues mi propose di produrgli un altro disco
solista. In quel periodo io stavo ascoltando solo delta blues e la cosa mi parve
molto interessante. In breve registrammo e pubblicammo un disco in presa
diretta, chitarra, armonica e voce. Ci volle più tempo a decidere la scaletta
che a registrare il disco. Eravamo entrambi soddisfatti del materiale. Enrico
cominciò a farmi pressioni per la pubblicazione e io sinceramente non sapevo a
che santo rivolgermi, vista l’esperienza di
“Sunset
Feeling”. Chiesi di partecipare come coproduttore alla stampa ed alla
distribuzione di questo disco a Cristiano Incerti, bassista dei Mamamicarburo e
fan di Enrico da lunga data. Cristiano ne fu entusiasta e demmo alle stampe
“Blues Interview”.
Cristiano gli organizzo anche un tour promozionale tra Lombardia, Emilia e
Veneto. Nel frattempo io e Fabrizio cominciavamo a pensare ad un secondo
episodio di “Roots Connection”. Ogni tanto capitava di fare ancora qualche
concerto in giro per l’Italia ed Enrico ci diede la sua classica cassettina di
brani inediti e standard blues per cominciare a lavorare al nuovo materiale.
Pensai di coinvolgere a livello vocale qualche vecchio amico nel nuovo disco. Fu
così che Alberto Morselli (voce dei Modena City Ramblers di “Riportando Tutto A
Casa”) col quale stavo già collaborando alla realizzazione del suo disco
solista, ci prestò la sua preziosa voce.
Scegliemmo un brano struggente di “Oh Mercy” di Bob Dylan “Ring Them Bells”.
Coinvolsi anche Lucia Tarì (Frontera, Timoria) per cantare un pezzo di Mahalia
Jackson. Lucia era la cantante del mio primo gruppo ed era la socia che si
occupava dell’accomodation dello studio Esagono. Una grande voce e una vecchia
amica. Il disco si delineò del tutto e finimmo i mixaggi nel marzo 2006.
Durante una nostra esibizione in provincia di Reggio Emilia il 25 Aprile di
quell’anno, si fece avanti un produttore discografico che ci propose un
contratto. L’etichetta era Bagana/Edel. Di li all’uscita del disco passarono tre
anni.
Come al solito pubblicare un disco di questo tipo in Italia si rivelava un
impresa non semplice. Io intanto avevo iniziato a collaborare con una band di
pop rock italiana: i Rio. Poco dopo mi proposero di entrare nel loro line up e
cominciai a suonare tantissimo in giro per l’Italia.
Alcuni mesi dopo mi chiamò Enrico dall’ospedale di Pisa. Aveva avuto
un’emorragia interna dovuta al fegato ormai a pezzi. Gli pronosticarono un
trapianto come sola via di salvezza. Lo andai a trovare assieme a Cristiano e lo
trovai veramente provato. A Pasqua subì il trapianto.
Lo sentivo settimanalmente e mi sembrava ci stesse saltando fuori alla grande.
Le crisi antirigetto erano state superate e avrebbe dovuto iniziare poco tempo
dopo la cura di immunizzazione a base di Interferone. Durante l’estate
successiva facemmo l’ultimo concerto insieme.
Dopo una buona performance lo lasciammo sul palco a congedare la non tantissima
gente con un brano chitarra e voce. Stupendo, struggente, come solo lui sapeva
essere. Fu l’ultima volta che vidi Enrico in vita. Sopra un palco a suonare del
blues.
Il 23 aprile 2009 si tenne un tributo a Bolzano “Blues For Enrico”. Decidemmo
commossi di andare. Stava uscendo “Animistyc” e sarebbe stata una delle poche
occasioni per presentarlo dal vivo. Avrei cantato io, qualche pezzo lo avremmo
fatto insieme io e Fabrizio. Dopo il sound check lasciammo il teatro sicuri di
evocare l’anima di Enrico tramite il rito Voodoo dell’aperitivo. Ci
ripresentammo al teatro verso le 23 quasi completamente sbronzi, sicuri che
comunque le basi elettroniche avrebbero sostenuto qualsiasi nostra caduta.
Enrico fino all’ultimo pezzo non si fece vivo. Fu durante “Ring Them Bells”, il
pezzo di chiusura, che sentii una strana energia dentro e mi ritrovai a finire
il pezzo in ginocchio.
Ci fu un applauso e una standing ovation da parte del teatro di quattrocento
posti completamente esaurito. Sono sicuro che quella sera eravamo in tre a
suonare su quel palco.
INCROCIANDO ENRICO di
Fabrizio ”Taver” Tavernelli (Roots Connection)
I miei primi contatti con Enrico Micheletti sono concentrati nei primi anni '90,
quando con i nostri rispettivi progetti del periodo (io con gli AFA e lui con le
sue produzioni solistiche) ci incontrammo negli studi Vida e Esagono sorti
prodigiosamente nelle campagne di Rubiera in provincia di Reggio Emilia. Le
persone che gestivano gli studi avevano avuto esperienze musicali con Enrico e
col passare degli anni avevano rafforzato la reciproca amicizia, nel frattempo
nei locali di questi due studi (ma anche case sempre aperte, ospitali, popolate
e festanti) passavano i migliori artisti, le migliori bands nazionali, quando
sembrava che la scena nazionale, indie-rock-sperimentale-d'autore, potesse
veramente decollare. L'Esagono in particolare era diventato un luogo in cui i
musicisti si confrontavano, dove nascevano amicizie, collaborazioni e dove il
clima era veramente unico,
alimentato
da feste interminabili in cui si mescolavano generazioni, ambienti, ottiche
diverse, tutto all'insegna della passione per la musica. Durante quelle folli
notti che non volevano cedere al sorgere del sole, tra le rane e i grilli, tra
discorsi alti e alticci, tra fratellanze di sangue e utopie varie, tra fiumi di
vino e puntuali barcollanti cadute negli stagni che circondavano l'edificio,
nascevano sorprendenti jam in cui duellavano strumentisti che forse nella
quotidianità non avrebbero mai avuto occasione di suonare insieme. In una sola
rumorosa e molesta parola: una grande baracca! Grazie a questo ambiente e alle
amicizie in comune si concretizzò una collaborazione in occasione della
registrazione del secondo album dei miei AFA (“Fumana Mandala” del '95). Enrico
suonò una parte di sitar (di cui era ottimo conoscitore) sul brano “Nebbia”
accentuandone il lato acido-psichedelico. Da lì i nostri incontri furono
continui visto che lui si era in un certo modo accasato all'Esagono dopo anni di
randagismo. Capitò quindi di esibirci sullo stesso palco in serate organizzate
dai ragazzi dell'Esagono (e tra loro c'era Fabio Ferraboschi che era diventato
il prezioso fonico e produttore artistico dei nostri dischi) o di scrivere testi
in italiano per un suo album. Ricordo pure un mio concerto nella sua Bolzano
dove lui fu spettatore e cicerone in una città che non amava e di cui raccontava
quello che non va. Il nostro fonico in quella data era Arcangelo “Kaba”
Cavazzuti (sempre from Esagono), batterista che aveva lavorato con Enrico, suo
grande amico e compagno di bevute. Con Micheletti c'era la sua compagna d'allora
(nonchè corista nella sua band) che arrabbiata per l'inefficenza di chi doveva
farci da mangiare, saltò aldilà dello stand e cominciò a cucinare wurstel e
krauti imprecando in tedesco. Fu comunque una bella serata anche se noi
lasciammo un non buon ricordo agli organizzatori che si ritrovarono un capannone
quasi abbattuto dal nostro furgone manovrato in stato di ebbrezza. Così come
l'autostrada del Brennero non lasciò a noi un buon ricordo quando al ritorno
rischiammo diverse volte il cappottamento a seguito dello scoppio di due gomme e
a ripetute pause vomito sulla corsia d’emergenza. La vita on the road, anche nei
suoi percorsi meno nobili, continuava ad affascinarmi e mi “pasturavo un mondo”
ad ascoltare i racconti dei musicisti più grandi, compresi appunto quelli che
venivano narrati con enfasi nelle tavolate con i ragazzi dell'Esagono in cui
spesso sedeva ospite Enrico. A dir la verità il suo nome era già circolato qui
dalle mie parti sul finire degli anni 70 quando la sua band “Hard Time Blues
Band” venne a suonare proprio nella mia natia Correggio (a proposito di questo
episodio mi permetto di menzionare il libro “Correggio Mon Amour” in cui sono
raccontati quarant'anni di musica in questa città della provincia emiliana) . Fu
un concerto infuocato e rimasto nella memoria di molti. Io allora ero ancora
piccolo e lontano dal mondo della musica, dunque la cosa mi toccò di striscio ma
probabilmente fu il segno di un futuro incrociarsi di percorsi. Sul finire degli
anni 90 e gli inizi del 2000, dopo lo scioglimento degli AFA, con Fabio si
cominciava a pensare ad altre prospettive, altri progetti o altre avventure
sonore. Allo stesso modo Fabio stava tramando con Enrico altre cose nel suo
nuovo studio, il “Busker Studio”. Tra queste cose ci capitò di organizzare
insieme un concerto di Enrico in un piccolo locale dove lavoravo come dj : “La
Galera” di Correggio, che per l'appunto era stato ricavato nel sottointerrato di
un’antica prigione.
Micheletti
si era concentrato su forme sempre più essenziali di blues esibendosi alla voce
e dobro. Proprio in quella serata, in un periodo vago che sta tra il 2000 e il
2001, davanti a una bottiglia di vino e sotto le volte di questo fumoso locale
si decide di unire le nostre strade in un in incrocio in cui devono approdare le
nostre rispettive esperienze e l'idea principale è quella di una fusione tra
blues del Delta (o blues rurale, arcaico, roots per l'appunto) e nuove forme
musicali contemporanee legate all'elettronica, al campionamento e al digitale.
Ecco spiegato il nome Roots Connection: una moderna connessione alle radici.
Nasce il primo disco (“Roots Connection”, 2002 - Baracca&Burattini/Edel) con
Enrico che ci fornisce i materiali grezzi, gli standards e il disvelamento di
oscuri classici del Delta su cui poi interveniamo io e Fabio come team di
produzione. Enrico, a differenza di molti puristi della musica blues, si
dimostra aperto alla contaminazione e alla sperimentazione e questo
atteggiamento di apertura è la vera essenza di una musica che non è mai stata
immutabile, che si è imbastardita, che nasce da fusioni successive con la madre
africa e che, grazie alla curiosità di alcuni bluesmen, da subito si è
interessata ai nuovi strumenti che la tecnologia metteva a disposizione (d'altra
parte gente come Muddy Waters, John Lee Hooker furono tra i primi ad adottare la
chitarra elettrificata negli anni 50). Da li in poi sono state tante le
occasioni per portare in giro questi brani e per condividere viaggi e live con
Enrico, una personalità complessa, come potrebbe essere quella di uno sciamano.
Mi viene in mente il Don Juan di Castaneda, un “guerriero della libertà totale”,
padrone della percezione, dell'agguato e dell'intento e, come ogni “hoochie
coochie man”, capace di fare brutti scherzi, di tirarti dentro a prodigi della
conoscenza, “trickery”, inganni, trucchi e stratagemmi. Senza dimenticare (...e
come si potrebbe) che ogni stregone ha pure il suo lato terribile e minaccioso:
come quando, dopo una discussione a seguito di un concerto non particolarmente
riuscito, mi minacciò di squartarmi se avessi continuato a guardarlo con quella
mia faccetta. Dunque una persona sfaccettata capace di grandi gesti di bontà e
illuminazione, quanto di irrazionale ira e spinosità. Forse è stata questa
complessità, questo andare su e giù nei rapporti con amici, collaboratori,
addetti al settore, a far dimenticare che Enrico è stato probabilmente il
miglior bluesmen italiano e questo non significa aver avuto medaglie e
virtuosismi, ma aver avuto la vera conoscenza, la profonda convivenza con questa
musica e con questo modo di essere ed essere nel mondo, in tutti i suoi aspetti,
compresi quelli più difficili e vissuti pericolosamente. Ora rimane un ultimo
episodio, “Animystic”, un album o un messaggio indelebile, un modo unico e
rivelatore di congedarsi da questo mondo. Come recita il titolo del brano “Done
Gone”, un altro uomo se ne è andato intraprendendo l'ennesimo viaggio ma
qualcosa resta e ritorna in circolo come un loop, come un riff costante e
ossessivo, come il ciclo della vita di cui Enrico è stato uno sfidante nel bene e nel male. Animismo è la religiosità essenziale, il sacro
sparso nella natura, negli elementi… sono ceneri sparse nel Mar Tirreno.
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