TBA,
The Troughback Agenda
rubrica a
cura di Dario Lombardo
INTRO
Gli
anni tra il 1975 ed il 1985 sono quelli centrali per la storia di cui
ci occupiamo, e cioè quella del Blues in Italia. Son quelli gli anni in
cui molti, qui e là per il paese, iniziano a suonare questa musica, i
più a caso, perchè sanno solo che è quella da cui hanno iniziato
Clapton, i Rolling Stones, Hendrix. Alcuni iniziano ad andare più a
fondo, a studiare i legami tra Blues e popolo Afroamericano, a cercare
notizie sui suoi protagonisti, altri mettono tutto in un unico
calderone liberatorio, vivendo forse una stagione a la Summer of Love
con quasi dieci anni di ritardo. L'Italia di quegli anni è attraversata
dal fiume del cambiamento, il tentativo di uscire dalla crisi seguita
al boom economico degli anni 60 si muove tra i mutamenti culturali,
legislativi e politici seguiti al '68. Nelle case stanno arrivando le
lavastoviglie, ed i televisori trasmettono ancora in bianco e nero,
magari con un fantasioso e triste al tempo stesso telo in plastica
colorata appeso sullo schermo per dare un'illusione di colore. Le
macchine sono le 500, le 126 e 127, in massima parte, ma non dobbiamo
scordare le cugine d'Oltralpe, e quindi le Renault 4 e 5, o le non
ancora mitizzate ma assolutamente amate Citroen Dyane e 2 Chevaux. Da
solo un anno si è infine stabilito che si può tranquillamente
divorziare, e normative fondamentali su aborto e follia stanno
arrivando finalmente in porto. Nelle piazze si muore: solo nell'aprile
del 1975 si hanno quattro morti nel giro di pochi giorni. Studenti,
pensionati, operai. L'anno prima, la Strage di Brescia, l'Italicus: e
l'elenco sarebbe lungo, mi fermo qui.
In quel 1975 alcuni, tra
una manifestazione, una riunione o altro, iniziano a suonare con più
coerenza e continuità. La chitarra è sempre presente nei sabati sera
passati in piole, taverne, trattorie (il nome può cambiare a seconda della regione in cui ambientate la
scena...), ma quello che si canta sono le canzoni popolari, di lotta,
oppure gli Inti Illimani. E poi Guccini e De Andrè: da lì a poco De
Gregori, Venditti, Finardi e Bennato rimpolperanno il repertorio. E poi
Battisti... amato, ma con quella maledizione politica addosso (vera?
falsa?) che impedisce, a meno di solenni ubriacature collettive, di
cantarlo. Non Italiani? Dylan, soprattutto. Alcuni, ma pochi, cantano i
Beatles. Già, come si diverte la gente? Si suona, si va in piola... quindi,
sostanzialmente, si mangia e si beve. Le droghe devono ancora essere
introdotte in questa scena, faranno il loro sporco lavoro da qui a
qualche anno, spazzando via molti per sgombrare il campo da illusioni o
sussulti di cambiamento. Ma questa, è un'altra storia.
Nel
1975 sto compiendo diciotto anni, frequento la seconda liceo classico
al Gioberti di Torino, sono militante di Lotta Continua. Da alcuni anni
suono la chitarra, conosco gli accordi, le scale, ma il resto è nebbia,
non ci sono né manuali né musicisti che ti insegnino cose diverse da
quelle di cui sopra. I dischi, i concerti ed alcune trasmissioni radio
(Rai, o Radio Montecarlo, ovvio, le radio libere inizieranno proprio
quell'anno, siamo alla preistoria) sono le uniche fonti attraverso le
quali passi una qualche possibilità di indagine verso musiche diverse
dal mainstream italiano o dalle nostre musiche popolari, siano esse
politiche, culturali o di puro svago. Nel '74 per pochi mesi in alcune
zone del Nord si vide la televisione della Svizzera Italiana, lì mi
apparve per la prima volta Bo Diddley, era un filmato di cui registrai
avidamente l'audio col mio appena arrivato registratore a cassette
Grundig... Poi c'era anche un circuito alternativo fatto di proiezioni
di film rock in sale d'essai o più spesso in cinema parrocchiali di
periferia attraverso cui si potevano vedere film come Monterey Pop,
Woodstock, Altamont.
Diverso
il discorso per i concerti: tra il '72 ed il '77 i tour si
susseguivano, Torino era una buona piazza e molte furono le serate
passate al Palasport per vedere Rod Stewart piuttosto che i Genesis, i
Traffic od i Gentle Giant. Il Progressive soprattutto era visibile, ma
anche il Jazz, ricordo i Nucleus di Ian Carr, ad esempio. E poi gli
Area, un po' dopo.
In quel 1975 dunque alcuni iniziano a suonare:
iniziano da lì a poco a circolare i nomi di Guido, Fabio, Roberto.
Fabio è il primo di cui ho un ricordo visivo (il concerto di Muddy
Waters nel '76 a Torino, eravamo entrambi sotto il palco, io a fare
servizio d'ordine, lui a fotografare), Guido lo vidi suonare a Milano,
credo prima di B.B. King, l'anno era il '78 o '79, direi. Ciotti è però
il primo che ricordo di aver incontrato, lo avvistai nel '78 quando
girava insieme a Bennato: una bella serata passata nei camerini del
Palasport, Roberto non suonava tutto lo spettacolo ed io ero lì a
cercare di fare un'intervista con annesso servizio fotografico per
conto della radio per cui stavo iniziando a lavorare, Radio Flash. E
quindi si parlava, ed io devo averlo subissato di domande su quella
strana chitarra di metallo che usava: ma poi, perchè ci scivolava sopra
con quel tubo... ?
P.S.
Non sono né un critico né uno storico della musica, ma semplicemente un
musicista. Il mio racconto di conseguenza forzatamente racconterà solo
una parte della storia, cioè quella che conosco per averla vissuta:
quindi la mia e quella della mia famiglia di musicisti, i compagni di
viaggio con cui ho avuto ed ho la fortuna e il piacere di lavorare. Il
resto della storia, lo lascio ad altri.
1 – 1976
Nel
1976 ho diciannove anni, un anno importante: giugno, prime elezioni da
votante, luglio maturità. Arriva l'autunno, e quindi l'università
incombe, iscrizioni, code, pagamenti. E qualcosa inizia a ribollire,
nei corridoi di Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche di
Torino, qualcosa che sembrerebbe far pensare ad un nuovo inizio per i
movimenti dopo un anno (il '76, appunto) di sosta, caduta, riflusso. A
Rimini il secondo Congresso di Lotta Continua dovrebbe portare alla
nascita del partito, ed invece è proprio lì ed allora che viene deciso
lo scioglimento dell'organizzazione. Decisione politicamente
incomprensibile in quel momento, e forse storicamente contestabile,
almeno nei modi, ancora oggi. Avviene nei giorni tra il 31 ottobre ed
il 5 novembre...e questo cosa c'entra, direte voi... c'entra eccome,
perchè in quei giorni di inizio novembre la mia testa è presa da questi
pensieri quando un amico, Andrea, mi chiama per chiedermi se voglio
lavorare per un festival jazz che ci sarà tra pochi giorni al
Palasport, ah, e che si deve fare? Pagano? Certo che sì,
l'organizzazione è AICS, non sarà tanto ma i soldi ci sono, e poi ci
vediamo i concerti gratis. E chi suona? Don Cherry, Gil Evans, Muddy
Waters... i primi due li conosco, il terzo no, mai sentito nominare, non
ne parla neanche Bertoncelli... affare fatto, mi arruolo e così mi
ritrovo a stendere spessi teli di plastica sul prezioso parquet del
campo di basket del Palasport, tentativo per difenderlo da segni di
sedie, piedi ed altro. Sopra i teli, le sedie, a gruppi di quattro o
sei per volta, quelle da sala cinematografica, in legno col sedile
ribaltabile. Al palco pensano altri, non è compito nostro: a noi
toccano montaggio, smontaggio e pulitura finale della sala. I primi due
giorni filan via lisci, nessun problema, ma è l'ultimo giorno che
iniziano i problemi. Arriva la notizia, per vie traverse, through the
grapevine, che quella sera il movimento per l'autoriduzione voglia
sfondare per il concerto della Muddy Waters Blues Orchestra (orchestra?
L'unica cosa che mi venga in mente in quel momento è l'orchestra che
suona un blues nel Laureato, ricordate, la scena dello strip tease? Che
noia, penso...). Disposizione della direzione del festival: agli
autoriduttori penserà la polizia, ma noi dobbiamo avere un servizio
d'ordine interno, quindi ci pensate voi. Noi??? Questo non era
assolutamente previsto, e a parte il rischio, molti di quelli che saran
dall'altra parte saranno facce note, se non decisamente
conosciute... abbozziamo, e ci inventiamo un cordone di servizio a
difesa dell'accesso alla platea: l'intesa tra noi è di tenere i pochi
minuti di facciata e poi mollare tutto, non è affar nostro. Tra noi, a
parte il mio amico ed altri del suo giro, conosco alcune persone nuove,
uno è un bassista, cosa interessante perchè non è strumento così
popolare, all'epoca, merce rara, insomma... si chiama Moreno, ci
scambiamo i numeri di telefono, non si sa mai. E poi c'è Alfredo
Ponissi, suona già il sassofono in giro, ma fa Jazz... con loro si parla
un mucchio di musica, nello spazio tra le cancellate ed il palazzetto.
Tra alcuni anni oltre che parlarne la si suonerà insieme, in palchi,
scuole e sale di registrazione. Mentre siamo di presidio alla scalinata
interna iniziano le prove del suono. Oh, e questo cos'é? Ma che
orchestra e orchestra, 'sta roba è meglio dei Rolling Stones! Così mi
capita di ascoltare per la prima volta il suono dello Chicago Blues. La
formazione è quella con Luther Johnson e Bob Margolin alle chitarre,
per intenderci... Finisce il sound check, noi siam sempre lì, ecco che
dalle scale salgono gli organizzatori, c'è il padre del mio amico, e
poi Sergio Ramella dell'AICS... e c'è anche la band, tutti quanti. Il
padre di Andrea si ferma, e ci presenta a Muddy, poche parole, una
stretta di mano, la sua, che segnerà tutto quel che verrà.
La band
va a cena, noi restiamo lì: all'orario di apertura dei cancelli come
previsto inizia il ballo, gli autoriduttori premono per sfondare, chi
ha il biglietto vuole entrare ma se si apre entran tutti: fuori il
casino è totale, noi dentro aspettiamo. L'odore acre dei lacrimogeni
inizia ad infiltrarsi tra le mura del palasport, cazzo, è strano, di
solito siamo dall'altro lato, non dietro alla polizia... in ogni modo, è
uno scontro non paragonabile a quelli per i concerti di Santana che
faranno poi sospendere tutti i tour fino al 1979. Questa è una
scaramuccia, gli organizzatori decidono di dare il via libera e di fare
entrare tutti per evitare conseguenze più gravi, che poi è ancora da
vedere se ci sarebbero state.
Così,
la torma di paganti ed autoriduttori entra e sciama per l'anello, il
corridoio interno che cinge tutta la sala e su cui si affacciano gli
accessi alla galleria ed alla platea. Come previsto teniamo un poco,
giusto il tempo di vederci con alcuni che stan dall'altra parte (??? ma
che caz... ??? TU???): la cosa si risolverà poi con un paio di
bicchieri di rosso in piola, non è grave. Non lo so ancora, ma lì in
mezzo alla calca c'è anche un ragazzo che non conosco ancora, Andrea,
suona l'armonica e gli piace il blues, da lì a qualche anno mi capiterà
spesso di suonare con lui...
Basta, via, scendiamo, difendere una
scala in discesa non è possibile e poi dai, iniziano a suonare tra
poco... in sala, passiamo oltre le transenne, front stage... la posizione
migliore, non c'è dubbio. In prima fila una signora il cui
abbigliamento stona decisamente, è impellicciata, capello biondo,
ingioiellata oltre ogni limite, o almeno così ci parve all'epoca: a
fine concerto la pelliccia sarà abbandonata sul sedile, e la signora,
dopo aver lottato strenuamente con la gonna che continuava a risalire
oltre il limite della decenza per via dei suoi balletti sulla sedia,
infine cederà e si ritroverà a ballare Got My Mojo Working in mezzo
alla calca...
Nella fossa sotto il palco ci ritroviamo tutti, ci sono anche i
fotografi, tra loro uno alto coi baffi, arriva da Milano e si chiama
Fabio... inizia la band, un boogie guidato dall'armonica di Jerry
Portnoy, che suono, ma non è quello folk alla Bob Dylan! E poi questo
slide, Margolin, il piano di Pinetop Perkins... sarà proprio lui a
condurre il pezzo successivo, After Hours. Il volume è basso, son lì di
fianco al palco e mentre Pinetop suona infilo la testa in uno di quei
giganteschi woofer, mi appoggio, Luther Johnson suona. Ecco, questo è
il momento in cui lucidamente decido che questo è quello che voglio
suonare, e nient'altro. E' sabato sera, il lunedì successivo andrò
nell'unico negozio di dischi in cui in quel novembre del 1976 si possa
pensare di trovare un disco di Muddy Waters a Torino, si chiama
Maschio, è in pieno centro, piazza Castello (era, oggi al suo posto c'è
uno di quegli orrendi spacci di vestiario a basso costo...). Il disco è
lì, in vetrina che mi aspetta, esposto proprio in occasione del
Festival... The London Sessions, l'etichetta è la Chess. E quindi, si
dia il via alle danze!
1987 - parte 1.
Verso metà marzo si
sparge la voce, da lì a poco c'è la certezza: andiamo a Chicago. Ma non
da turisti, né da musicanti allo sbaraglio, bensì portati ufficialmente dai
due Festival di Pistoia e, appunto, Chicago. Si sa poco di quel che
accade: c'è una collaborazione tra i due festival, c'è la decisione di
portare una band dall'Italia, ed infine un comitato di valutazione
italo-americano, chiaramente inteso non nel senso che è composto di
abitanti di Midlothian (una delle zone italiane di Chicago), ma bensì
di esperti nominati dall'uno e dall'altro ente. Siamo in ballo in
diversi, si fanno nomi ma tutto è un forse, magari, non si sa. In
pratica, a quanto pare, sarebbe un testa a testa tra noi e pochi altri.
E la spuntiamo noi: Model T Boogie va a Chicago. E' bene sottolineare
che era la prima volta in assoluto che una blues band italiana veniva
invitatata ufficialmente negli USA per partecipare, sia pure in
manifestazioni collaterali, ad un festival importante come quello. Un
fatto che mi ritornerà alla mente nel 2014, nei giorni in cui la
direzione del Festival mi comunicherà che sono stato invitato, primo
italiano in cartellone, allo Chicago Blues Festival. Torniamo al 1987,
ed alla preparazione del viaggio. Le pratiche, cos'era allora la
trafila per ottenere passaporto e visto! Ricordo che il passaporto
continuava a non arrivare, lo ottenni in pratica l'ultimo giorno utile
prima dell'appuntamento al Consolato Americano di Genova (che allora
ancora c'era ed era più consigliabile di quello di Milano in termini di
tempi di lavoro). Arrivai in Questura a Torino e mi fecero passare in
una stanza a parte, qui le cose si mettono male, pensai... ma in realtà
c'era solo il solito brigadiere o cos'altro, un tipo che pareva uscito
da un film di Totò e Peppino. Solo che questo era vero, e poteva
decidere effettivamente cosa fare del mio passaporto: fece due battute,
ma perchè c'è bisogno di questo passaporto così in fretta, deve
viaggiare? In un modo o nell'altro ne uscii, e col passaporto. Poi
Genova, il visto, e se non me lo danno? Non ricordo molto del
colloquio, fu molto formale e preciso, il primo incontro con lo Stato
Americano: gentilezza ed accuratezza, formalità e precisione. Molto
diverso dal brigadiere di cui sopra, non c'è che dire. Ed alla fine il
visto c'è, bello stampato sul mio passaporto, valido per “multiple
applications, until Indefinitely”. E' il 27 maggio del 1987.
Il
2 Giugno, Festa della Repubblica, muoviamo verso Pistoia da Torino e
Milano, il 3 ci aspetta un viaggio dei più complessi che io ricordi. La
nostra Renault 4 questa volta rimarrà parcheggiata a Pistoia ad
aspettarci: partiamo tra le 4 e le 5 di notte, destinazione Pisa. Da
lì, un aereo ci porta a Roma. A Fiumicino dobbiamo passare un poco di
tempo, il volo per Chicago parte verso metà giornata. Camminiamo. Anche
noi, in qualche modo, sembriamo Totò e Peppino, in particolare nella
famosa scena dell'arrivo a Milano Centrale: quando non hai ancora molta
esperienza di viaggio hai sempre qualche cosa di troppo nel bagaglio o nell'abbigliamento,
e di certo hai l'aria spaesata che il viaggiatore esperto coglie subito
al volo, se si trova ad osservare i suoi vicini in sala d'aspetto o
negli ampi saloni di transito dell'aeroporto. Giriamo, con le custodie
degli strumenti avvolte in nastri adesivi per proteggerle dai vuoti
d'aria (....!), non sapendo cosa fare. Ad un certo punto si avvicina
l'ora dell'imbarco. Passando davanti ad un' uscita vediamo tra la folla
di parenti e umanità varia in attesa un uomo con la camicia di servizio
RAI che ha un cartello in mano con scritto, a pennarello, “RON WOOD”.
Ma figurati, sarà un omonimo, chissà chi è. Boh, andiamo, è ora. Ci
ritroviamo tutti e cinque su una scala mobile, in salita verso il piano
superiore. Per uno di quegli strani casi della sorte, la nostra scala è
completamente vuota, ci siamo solo noi cinque, chitarre, nastri adesivi
e tutto quanto. Sull'altra rampa, in discesa, una persona sola.
Ovviamente, chi può essere se non Ron Wood: ma non un omonimo, è
proprio lui, che ci guarda sornione dall'alto in basso (inevitabile,
sta scendendo e noi salendo...) e mentre ci affianca si avvolge
negligentemente nella sua sciarpina leopardata, very very Stones...
Tutto sembra avvenire al rallentatore, ma questo forse è uno di quegli
effetti speciali in cui la memoria è specialista, no? Fatto sta, che i
cinque escono del tutto ringalluzziti da questo casuale incontro, che è
in grado di far passare stanchezza e dubbi, ci diciamo, è un segno del
destino, andrà tutto bene! Segno del destino o meno che fosse, andò in
effetti tutto bene.
Partiamo da Roma in
orario, dopo
un po' il comandante ci avverte che il volo ha iniziato la fase di
atterraggio
verso Milano: eh!?!?!? E allora, il viaggio di ieri, la levataccia di
stamattina e tutto quanto? Non si poteva partire da Milano? Beh, non
avremo
incontrato Ron Wood in quel caso, mettiamola così...
La comitiva a Milano si completa,
salgono a bordo Marino Grandi, Luigi Monge, Felice Motta ed altri. C'è
pure
Enzo Gentile, che si unisce ad Ernesto Assante, a Stefano Mannucci e ad
altri
giornalisti. A completare il tutto, la troupe televisiva di Video
Music. Il
viaggio intercontinentale è lungo, ovvio, e per la prima volta
sperimento
quella sensazione di avvolgimento del tempo su sé stesso data dallo
spostamento
di fuso orario. Accanto a me c'è Giancarlo, gli altri sono nella stessa
fila ma
in settori diversi.
All'arrivo,
ricuperiamo le chitarre che erano
state prese in custodia dalle assistenti di volo al nostro ingresso in
cabina,
e ci avviamo. I box dell'Immigration sono diversi da quelli
attuali, senza
telecamere o macchinette per le foto e le impronte digitali, ma il
concetto non
cambia di molto. L'officer è un uomo nero corpulento, che non pare
molto
disponibile, o almeno così ci pare in quel momento. In effetti è una
pratica
lunga, noi pur avendo ognuno il proprio visto siamo inseriti in una
comitiva
più ampia, ci sono strumenti, attrezzature televisive. A salvare la
situazione
arriva una donna nera, funzionaria della Città di Chicago, che ha il
compito di
assisterci nella fase d'arrivo. Mette a posto tutto lei, l'officer
sembra poco
convinto ma alla fine mette i timbri necessari e possiamo entrare. La
funzionaria ci porta verso un bus ufficiale della Città di Chicago, a
nostra
disposizione per i trasporti ufficiali in quei giorni. Saliamo e via,
direzione
Essex Inn, prestigioso albergo in posizione centralissima, 800 South
Michigan
Avenue, proprio davanti a Grant Park, sede del festival. Ma in quel
momento non
so nulla della toponomastica di Chicago, dei suoi parchi e dei suoi
alberghi.
Sono seduto in questo bus, e la città mi corre intorno con autostrade
interne,
casette in legno o piccole costruzioni in mattoni a due o tre piani,
spesso
fatiscenti: sullo sfondo, si delineano i grattacieli di downtown, la
skyline
della città. Non sto vedendo un telefilm, stavolta è la realtà. Il jet
lag mi
avvolge dolcemente, mentre fisso le lunghissime unghie artificiali
della
funzionaria comunale, dipinte in un'improponibile tonalità di rosso. continua...
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