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I 50 anni dell’album "BLUESBREAKERS, John Mayall with Eric Clapton" (aka Beano Album)

Come suggeriva Mike Vernon nell’intervista pubblicata su queste pagine, siamo andati a conoscere la storia della sua produzione di questo storico album nell’esauriente articolo di Harry Shapiro su Blues Magazine n. 31.
Quanto segue quindi è un adattamento, traduzione ed elaborazione, di quanto raccontato su Blues Magazine. L’album uscì nel 1966 per la Decca.  (Gianni Franchi)

Molti furono i fattori che determinarono il successo dell'album dei Bluesbreakers conosciuto con il suo titolo non ufficiale BEANO ALBUM per il fumetto che Clapton legge nella copertina del disco (Beano appunto). Per Clapton era finalmente la situazione in cui poteva suonare la musica che veramente voleva: il blues. A casa di John Mayall , di cui era ospite, poté approfondire la sua conoscenza di questa musica tramite la grande collezione del padrone di casa;  la combinazione della sua nuova Les Paul con gli amplificatori Marshall, messa a punto in quei giorni, creava finalmente il suono pieno ed aggressivo che Eric aveva in mente.
Nonostante tutti questi fattori positivi però Clapton era ancora giovanissimo e confuso sulla strada da seguire, la fama che stava acquistando (erano i tempi delle scritte “Clapton is God” sui muri di Londra) da una parte lo soddisfaceva e dall'altra lo spaventava. Così nell'agosto del 1965, dopo soli pochi mesi in cui era entrato nei Bluesbreakers, decise di partire con una compagnia di amici musicisti e suonare in giro per il mondo con il nome di The Glands. La fuga ebbe un corso assai breve,  si fermo’ in Grecia dove l'improvvisata band doveva suonare insieme ad un gruppo locale.  Qui infatti una serie di problemi costrinse Eric a tornare velocemente in Inghilterra e telefonare immediatamente a Mayall chiedendogli di riprenderlo nel gruppo. Cosa che Mayall fece senza pensarci su un attimo. La stessa formazione dei Bluesbreakers in quei giorni era assai instabile, Peter Green fu uno dei temporanei sostituti di Clapton e Jack Bruce sostituì (anche lui per poche date) il bassista titolare John Mc Vie.
La continua ricerca di Mayall lo convinse a contattare Mike Vernon per cercare di avere una nuova possibilità con la Decca (con questa etichetta Mayall aveva già inciso un live di scarso successo
1965 - John Mayall Plays John Mayall  ). Vernon riuscì a convincere uno dei boss della etichetta a dare al cantante inglese un'altra chance anche in ragione della presenza del nuovo chitarrista (Clapton) e del loro successo dal vivo nei clubs. 

Prima di entrare in sala per la Decca, Vernon propose a Mayall e Clapton di registrare alcune tracce in duo (chitarra /piano e voce) per la sua piccola etichetta Purdah collegata alla fanzine R&B Monthly che Vernon gestiva con il fratello. La session registrata con un solo microfono presso lo studio di Vernon in Old Compton Street produsse due brani “Bernard Jenkins” e “Lonely years”  che, nelle parole del produttore, furono quanto di più si avvicinava al Chicago sound tra tutte le sue produzioni. Questa esperienza aiutò Vernon nella impresa di catturare il sound live dei Bluesbreakers come Mayall desiderava.
La formazione, ora stabilizzatasi con la ritmica di Hughie Flint e John McVie, faceva scintille dal vivo con la chitarra di Clapton in evidenza e questo era il suono che volevano catturare.
Tuttavia non era facile riprodurre quel suono in uno studio ed in una struttura un po’ ingessata come la Decca dove c'erano regole assai rigide su quello che poteva o non si poteva fare. La presenza del tecnico Gus Dudgeon, uno dei preferiti di Vernon, partito dalla gavetta fino ad arrivare ai comandi della consolle sicuramente li aiutò nell'impresa.
Tuttavia lo stesso Dudgeon, a suo agio quando si preparava a registrare la ritmica della band, rimase a bocca aperta sentendo il suono ed il volume della chitarra di Clapton. Era quello il problema principale che Vernon e Dudgeon dovevano risolvere.  Come registrare la chitarra di Clapton con lo stesso suono e volume che aveva dal vivo.
Con l'ampli girato verso il muro con una leggera angolazione, pannelli isolanti ed il giusto posizionamento del microfono, alla fine i due riuscirono nell'impresa anche se, nelle loro stesse parole, la chitarra rientrò in tutte e 4 le tracce a loro disposizione. Vernon decise di non utilizzare una stanza isolata per permettere a Clapton ed alla band di avere il suono reale della chitarra e di non indossare le cuffie che avrebbero inficiato la sensazione del live. Eric stesso era molto determinato a suonare come dal vivo, davanti al suo ampli, ascoltando tutto quello che sia lui che gli altri suonavano ed interagendo con loro.
Gus ricorda tutte le limitazioni imposte dalla Decca nei loro studi, non fare questo, questo è vietato, ma se voleva lavorare con quella band doveva superare i loro diktat e registrare la band così come i musicisti volevano.  Ci sarebbe voluto un po' per ottenere quello che tutti desideravano, soprattutto Eric, ma alla fine sarebbero stati soddisfatti. Era una nuova era, sconosciuta per la Decca, tanto che mentre registravano arrivava gente da tutte le parti, attirata dalle note che rimbombavano in tutti gli studi, per capire che cosa stava succedendo.
Alla band fu aggiunta anche una sezione fiati composta da Alan Skidmore, Johnny Almond e Dennis Healey che diede un contributo notevole ad alcuni brani dell'album.
E anche se terminato l'album Eric Clapton lasciò la band per formare i CREAM, il disco fu un successo inaspettato, alla fine di luglio 1966 era nelle classifiche UK al 6 posto e rimase in classifica per 17 settimane a dimostrazione che anche un album di blues poteva vendere ed a sancire il definitivo boom del British blues.

Influenze

Nonostante questo album sia in fondo solo un buon disco di blues, forse nemmeno paragonabile ad alcuni lavori dei maestri americani, tuttavia  ispirò ed influenzò generazioni di giovani musicisti ed appassionati.
Lo stesso stile chitarristico di Clapton all’epoca, per quanto ottimo, non era al livello di quello dei suoi maestri come Otis Rush o Freddie King ma nonostante questo fu molto più influente in quel momento degli originali. Alcuni chitarristi inglesi come Gary Moore (vedi copertina del milionario Still got the blues dove campeggia la copertina dell’album sul letto) devono molto a questo disco. Lo stesso si può dire di Steve Hackett e fuori dei confini inglesi, dell'americano Joe Bonamassa.
Attraverso Eric e Mayall molti giovani scoprirono i maestri del blues americano e questo è sicuramente uno dei suoi grandi meriti. E se ne stiamo parlando ancora dopo 50 anni, come dice Mike Vernon sorridendo, è perché "It's a fucking great album!".

Le canzoni:

All Your Love 3:38 (Otis Rush -Willie Dixon)
Hideaway 3:17 (Freddie King- Sonny Thompson)
Little Girl 2:36 (Mayall)
Another Man 1:47 (Mayall)
Double Crossing Time 3:04  (Clapton-Mayall)
What'd I Say 4:28  (Ray Charles)

Key To Love 2:08 (Mayall)
Parchman Farm 2:22 (Mosè Allison)
Have You Heard 5:56 (Mayall)
Ramblin' On My Mind 3:08 (R. Johnson)
Steppin' Out 2:30 (I. C. Frazier)
It Ain't Right 2:45  (W. Jacobs)

Riguardo la scelta dei brani Vernon ricorda che non ci fu una grossa pianificazione, ne discusse con Mayall che scelse le canzoni. Queste avrebbero dovuto riflettere la scaletta dei loro Live set, Chicago Blues e brani originali di Mayall.
La presenza di Clapton alla chitarra permise a Mayall di inserire anche diversi brani chitarristici in omaggio ad alcuni dei maestri dello stesso Eric. Come "All Your Love" scritta da Willie Dixon ed Otis Rush ed "Hideaway" (dal nome di un blues club a Chicago Mel's Hide Away Lounge) di Freddie King e Sonny Thompson che a sua volta riprende alcuni riff e temi di Hound Dog Taylor e Robert Lockwood.  
Nel 1963 il chitarrista Tom Mc Guinness con cui Clapton inizia a suonare nei Rooster gli fa sentire per la prima volta Freddie King. Il singolo strumentale Hideaway e soprattutto il lato B “I love the woman” lo fecero letteralmente impazzire. Nel 1985 in un’intervista Clapton indica questo brano come quello che gli aprì la strada verso la chitarra elettrica con la scoperta dei bending e degli assoli infuocati di Freddie King. Derek Trucks ha recentemente dichiarato “Quando suono con Eric, certe volte riesco a sentire nei suoi solo vibrare le note di Freddie King.”
Proprio in riferimento ai loro live, Mayall volle includere anche dei brani in cui il suono dell'organo era predominante e che dal vivo avevano un grande successo. Tuttavia la scelta di "What I'd Say" fu piuttosto travagliata perché John era consapevole della difficoltà di interpretare un brano di Ray Charles ma poiché era uno dei numeri che funzionava dal vivo, volle includerla. Le perplessità erano anche riguardo il solo di batteria previsto nel brano.  Lo stesso Hughie Flint era dubbioso poiché era conscio che una cosa era farlo dal vivo dove tutto funzionava grazie anche all’emozione ed alla spontaneità del live mentre una cosa era registrarlo in studio visto che lui stesso non si considerava un grande solista.
Il brano "Double Crossing Time" scritto da Mayall e Clapton invece era inizialmente intitolato Double Crossing Mann ispirato alla defezione di Jack Bruce dai Bluesbreakers per entrare nei Manfred Mann attirato dalla promessa di grandi successi con questa band.
"Ramblin On My Mind", Il debutto alla voce di Clapton non era invece uno dei brani suonati dal vivo.  Nella sua autobiografia il futuro Slowhand racconta le sensazioni suscitate dal primo ascolto dell’album “King of Delta blues” di Robert Johnson, quando da giovane chitarrista cercava di carpirne i segreti. Non riusciva a capacitarsi come un solo uomo potesse simultaneamente suonare linee di basso, ritmo e melodia e cantare contemporaneamente.  
Eric era abituato a cantare suonare i brani di Johnson ma Mayall dovette insistere non poco per convincerlo che valeva la pena registrare il brano per il disco.
Il brano Steppin Out  invece è probabilmente un omaggio ad uno degli altri chitarristi preferiti da Clapton, Matt Murphy che suonava nell’originale di Memphis Slim.

CREDITS:

John Mayall, organo, piano, voce, armonica
Eric Clapton chitarra, voce) Ramblin on my mind)
John McVie basso elettrico Hughie Flint batteria
Alan Skidmore – tenor saxophone
Johnny Almond – baritone saxophone
Derek Healey – tromba

Produzione

Gus Dudgeon – tecnico del suono
Mike Vernon – produttore

Di Eric Clapton è noto che subito dopo aver lasciato i Bluesbreakers diede vita ai Cream e poi prosegui' nella sua carriera di successi fino ad oggi. Lo stesso può dirsi di John Mayall che ha continuato a scoprire grandi chitarristi come Peter Green, Mick Taylor, Harvey Mandel, Freddie Robinson, Walter Trout, Kal David, Coco Montoya, Buddy Whittington, e continua ad incidere e girare il mondo come alfiere del blues. John McVie insieme a Mick Fleetwood e Peter Green formerà i Fleetwood Mac, band di cui ancora fa parte Hughie Flint (dopo i Bluesbreakers suonò con Alexis Korner ed i  Savoy Brown). Nel 1970 forma con Tom Mc Guinness ex Manfred Mann, la band Mc Guinness-Flint con cui per alcuni anni riscuote un certo successo ed incide diversi album. Alla fine degli anni 70 viene nuovamente contattato da McGuinness per entrare nella Blues Band di Paul Jones (vedi intervista) e Dave Kelly con cui incide tre album fino al 1981.



Omaggio al Riverside Hotel e Bessie Smith   di Lucia Braccioforte

(Dedicato a Zee Ratliff, ai suoi abbracci e ai nostri discorsi strampalati)

Il vissuto:

In qualunque posto del mondo io sarò d’ora in poi, non riuscirò più a dimenticare l’odore del Riverside Hotel. E’ un odore particolare che non si può raccontare. Si può solo respirare. E’ l’odore delle assi di legno del pavimento su cui ho camminato a piedi nudi per sentirne il calore; è l’odore delle porte antiche dai mille chiavistelli e che pure non si chiudono mai; l’odore dei vecchi mobili pieni di storie vissute e delle mani talentuose e amorevoli che li hanno toccati; è l’odore dei muri scrostati attraverso cui ho visto passare i miei tanti fantasmi interiori abbracciati alle mie piccole paure di oggi; l’odore della stanza dove morì Bessie Smith, una stanza dove entri sempre in punta di piedi e in rispettoso silenzio e dove tutto quello che vedi e che ascolti ti parla di Blues...
Il Riverside è il solo ed unico posto al mondo dove vive immortale lo spirito del Blues. L’unico posto da cui, sbirciando dalle finestre sigillate del bagno in fondo al corridoio (o a sud dell’infinito), se chiudi gli occhi puoi vedere ancora oggi, in lontananza, i campi immensi di cotone e di dolore e dove, se ascolti il silenzio, la notte, con attenzione, puoi sentire in lontananza i suoni e i lamenti antichi delle work song:

“No more auction blocks for me
No more no more
No more auction blocks for me
Many many thousand gone

No more slave-chains for me
No more,no more
No more slave-chains for me
Many many thousand gone

No more driver’s lash for me
No more,no more
No more driver’s lash for me

Many many thousand gone”

La notte al Riverside le anime degli ospiti cantano e suonano il blues: ci si ritrova tutti nel corridoio a camminare scalzi e ogni cigolio delle assi è un lamento; ogni passo, una danza blues; ogni parola non pronunciata, un assolo. Io li ho visti i fantasmi del blues, i fantasmi di Muddy Waters, di Howlin’ Wolf, di Sonny Boy Williamson II, che mi camminavano davanti e li ho inseguiti. Mi hanno preso per mano e indicato la strada. Perché al Riveside non ci si ferma per caso. Ci si ferma solo se la si è  persa la strada e c’è bisogno che qualcuno ce la faccia ritrovare.
La notte al Riverside ascolti voci familiari che pronunciano parole che vorresti fossero per te, ma non lo sono. Ci si rompe al Riverside. Il cuore sembra prima scoppiare e poi si ferma. Ma ti guardi intorno: il Blues ti sommerge e tutto torna a posto. Anche tutto quello che un posto non ce l’ha. E forse non ce l’ha mai avuto.
Ma non è un luogo triste il Riverside. E’ un posto vivo. E’ CASA per chi ama il Blues. E’ la creatività che si libera. E’ polvere che non si respira ma si sogna. E’ vibrazione intensa, calore, felicità. E’ il luogo dove tutto è possibile, se lo si vuole.
Il Riverside è un sortilegio Voodoo. Ci entri e non vorresti MAI più uscire. Non fare al Riverside è pieno di cose che ti sembra di fare. Passeggi mille volte nei corridoi lunghissimi contando i passi (che gioco splendido) ed escono fuori blues meravigliosi di cui le pareti sono impregnate. Ti giri un attimo, ed eccoli lì, li vedi Ike e Tina che provano il loro show, litigano e si baciano, ballano, suonano e ti chiamano “hey, baby... vieni con noi” e tu ci vai, e balli con loro, e ridi e ti diverti...
C’è un solo ed unico posto al mondo dove ho desiderato di essere da un lungo, lunghissimo tempo, prima che il tempo giusto arrivasse. Ed un unico e solo posto al mondo da dove ho desiderato non andare più via. Questo posto si chiama Riverside Hotel. E non è un posto qualunque.
E’ un luogo dell’Anima. Il solo ed unico posto al mondo dove ogni mattina, aprendo gli occhi, puoi sentire la voce di Bessie che cantaLove, oh love, oh careless love All my happiness bereft You've filled my heart with weary old blues Now I'm walkin', talkin' to myself  Love, oh love, oh careless love Trusted you now, it's too late You've made me throw my old friend down That's why I sing this song of hate”.
La sua voce e l’odore del Riverside sono ormai dentro di me. Sono il mio blues sottopelle.   

La storia:

L’Imperatrice del blues Bessie Smith, così la conoscono i suoi estimatori blues, non ha bisogno di presentazioni. Sulla sua voce bellissima e unica, su quello che la sua vita e la sua musica hanno rappresentato per la società del tempo, sulla sua umanità complessa e la sua fisicità esuberante, è stato scritto già tutto. Dice di lei Ralph Ellison:
Ci sono diversi livelli di tempo e funzione, per cui il Blues che in un posto può essere usato come semplice intrattenimento, in un altro può rivestire una funzione rituale. Bessie Smith avrebbe potuto essere una “regina del Blues” per la società in generale, ma per la comunità nera, in cui il Blues era parte di un modo di vita complessivo, ed espressione fondamentale dell’atteggiamento nei confronti della vita, Bessie è stata una sacerdotessa, una celebrante che affermò i valori del gruppo e l’abilità dell’uomo a misurarsi con il caos.”
Per una donna assunta a simbolo della comunità nera dell’epoca, rappresentante dei suoi valori e delle sue idiosincrasie, non ci poteva essere una morte banale, comune, rituale; la morte di Bessie Smith, cosi come la sua vita, è stata una morte violenta quanto romanzata, chiacchierata; una morte che per anni è stata enfatizzata come simbolo della più becera discriminazione razziale.
La storia e i fatti, hanno nel tempo reso giustizia alla realtà e ristabilito la verità su questa morte controversa: Bessie Smith fu la semplice vittima di un incidente automobilistico e non di un vile episodio  di omissione di soccorso, e quindi di un atto di discriminazione razziale. Altre voci, alquanto romanzate, ritengono che l’incidente di cui fu vittima fosse stata organizzato da alcuni rivali del marito, Richard Morgan, noto boss di New York dedito alla malavita,per faccende legate al monopolio sull’acool, ma non si tratta di voci certe. Sicuramente la sua morte fu determinata da una serie di eventi e circostanze improbabili e imprevedibili che hanno contribuito a crearne una leggenda.
Bessie Smith morì alle 11,30 del mattino del 26 settembre 1937. La notte precedente fu vittima di un incidente stradale mentre si dirigeva verso il Mississippi per lo spettacolo del giorno dopo. L’auto, una vecchia Packard, di proprietà di Bessie (che non aveva la patente) era guidata dal marito. Era circa l'una di notte quando partirono da Memphis, diretti a  sud in direzione di Clarksdale. L’auto durante il tragitto, a circa 16 km da Clarcksdale (il posto esatto dove avvenne l’incidente non si conosce e non è ora possibile  cercare di individuare il luogo esatto dell’impatto dal momento che la strada è stata da allora più volte allargata), si scontrò con un grosso camion che si era fermato a ridosso della strada e che stava ripartendo per reimmettersi sulla sua corsia. Il tamponamento fu inevitabile. L’auto si rovesciò su un fianco ferendo gravemente Bessie ad un avambraccio che le fu quasi staccato dal braccio. Il camion, il cui guidatore rimase illeso, continuò il suo viaggio verso Clarcksdale da dove pare inviò una autoambulanza, una delle tre che nelle lunghe ore successive arrivarono sul posto. I primi soccorsi furono prestati da un medico, il Dr. Hugh Smith che era di passaggio sulla strada con un amico Henry Broughton che fu immediatamente inviato a chiamare una autoambulanza. La fatalità volle che una vettura guidata da una coppia di bianchi di ritorno da un party, investisse l’auto del medico, una Chevrolet ferma in mezzo alla strada che a sua volta andò addosso alla vecchia Packard compromettendo ancora di più la già delicata situazione medica di Bessie. Per soccorrere la coppia fu chiamata un’ulteriore autoambulanza. Questi i fatti certi: Bessie fu trasportata all'Afro American Hospital G.T. Thomas di Clarksdale, mentre gli altri due feriti al poco lontano ospedale per bianchi, strutture entrambe inadeguate ad affrontare tali emergenze. Bessie morì dissanguata poco dopo aver raggiunto l’ospedale. Il certificato di morte riporta molteplici fratture composte e gravi lesioni interne.
L’origine sulle  voci relative all’omissione di soccorso e sulla discriminazione razziale sono attribuite ad un articolo pubblicato sula rivista Down Beat da parte di un incauto giornalista, John Hammond, il quale palesò l’idea che Bessie fosse stata rifiutata da diversi ospedali per bianchi che le avevano negato le cure necessarie. Nonostante le sue ritrattazioni, imputabili ad un errore di giudizio e valutazione sull’accaduto, e un secondo articolo in cui si precisava che Bessie era stata trasportata all’ospedale per gente di colore, di fatto tale voce fu smentita solo parecchi anni dopo, nel 1972 dal biografo ufficiale di Bessie Smith, Chris Albertson, il quale ripristino la verità dei fatti raccogliendo documenti e interviste da alcuni testimoni dell’epoca. Le sue accurate indagini stabilirono con assoluta certezza che Bessie fu subito portata all'ospedale per afro americani; d’altra parte, e la storia ce lo insegna, con la segregazione negli stati del sud, nessuna persona di colore sarebbe stata affidata ad una struttura ospedaliera per bianchi.
Una nota curiosa a corollario di questa storia è che Hugh Smith, oltre che medico, era un pianista jazz famoso e conosciuto nell’area del Mississippi e non aveva mai sentito parlare di Bessie Smith. Capì solo molto più tardi che il suo destino si era incrociato in modo tragico, per un attimo, con una delle donne che hanno scritto la storia del Blues.
Si racconta che ai funerali dell’Imperatrice, che si svolsero a Philadelfia, parteciparono circa settemila persone; nonostante ciò la sua lapide nel cimitero di Mount Lawn, poco fuori Philadelphia, rimase anonima per più di tre decenni, fin quando Juanita Green, che aveva lavorato per lei come cameriera, e Janis Joplin, nel 1970, non misero a disposizione il denaro necessario per una nuova lapide e un piccolo monumento in suo onore. Janis Joplin che deve molto della sua formazione a Bessie Smith, fece scrivere sulla tomba le seguenti parole “The greatest blues singer in the world will never stop singing". Omaggio di una grande dei nostri tempi ad una grande dei tempi in cui il blues era lo spirito e l’essenza della civiltà del Sud.
Il Thomas Hospital, l’ospedale afro americano dove Bessie Smith spirò, aperto appena prima della prima guerra mondiale e chiuso intorno al 1940. Qualche anno dopo l’edificio fu prima affittato (nel 1944) e poi acquistato (nel 1957) da Z.L. Hill che lo trasformò nel Riverside Hotel. Il Riverside Hotel vanta un ospite illustre, Jhon Kennedy jr., che vi soggiornò nel 1991; ma è conosciuto a Clarksdale come l’albergo del Blues. Dagli anni 40 agli anni 60, il Riversade è stato la casa di personaggi illustri del Blues, avendo ospitato per periodi anche lunghi bluesman fra i quali Ike Turner e la sua band (che qui scrisse e provò il primo rock’n'roll “Rocket 88”), Muddy Waters, Sonny Boy Williamson II, Robert Nightawk, Howlin’ Wolf, Houston Stackhous, Sam Cook, CL Franklin. Sembra che anche i Blind Boys of Alabama fossero spesso ospiti al Riverside, accuditi ed ospitati dalla generosa signora Hill, quando non erano ancora conosciuti.
Ancora oggi, il Riverside, è meta di pellegrinaggio da parte degli appassionati di blues. L’albergo è rimasto di proprietà della famiglia Ratliff ed è stato gestito da Frank "Rat" Ratliff, persona amatissima in Clarksdale fino al giorno della sua morte avvenuta il 28 marzo del 2013. L'hotel è attualmente gestito da sua figlia Zelena Ratliff.
La struttura originale vantava otto stanze, che sono quelle attualmente occupate dagli ospiti: nonostante la struttura ubicata su due piani e i progetti di ampliamento per garantire 21 stanze, si presenta ancora oggi nella sua forma originaria. Ed è questa originalità, la stanza n.2 di Bessie rimasta intatta dal giorno della sua morte, le porte originali, i mobili di un tempo, i ricordi accumulati negli anni, che rendono questo luogo unico, una parte della storia della musica blues. Il Riverside non ha subito ristrutturazioni e non è così stato minato nella sua autenticità. E’ parte della storia del luogo, come lo sono il fiume che scorre alle sue spalle, il blues che è dappertutto nell’aria, i campi di cotone che circondano Clarksdale nel calore soffocante che ti avvolge e ti toglie il respiro, negli abbracci e nel sorriso della gente.
Il Riverside non è un museo, non è una casa, non è un rifugio, non è neppure quello che dovrebbe essere, un albergo. Semplicemente è “quello che è”: un pezzo importante della storia del Blues sopravissuto nel tempo.
(Foto di Lucia Braccioforte)


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