Il
sogno americano a
cura di Gianni Franchi, introduzione di Michele Lotta.
Il
sogno nel cassetto di
noi tutti appassionati di Blues è visitare la terra d'origine,
annusarne gli odori, osservare con i propri occhi ciò che si è appreso dai
libri o - più
recentemente - attraverso Internet, ma soprattutto ascoltare ed
imparare da chi
questa musica l'ha ricevuta in eredità dai propri padri. SB: Perché hai deciso di andare negli States e quali posti hai visitato? DF:
Ho sempre sognato di
vivere gli Stati Uniti, credo che sia un passo quasi "obbligatorio"
da fare se si pensa di fare della musica americana la propria vita e il
proprio
lavoro. La prima volta sono stato in Ohio dove Sean Carney ha prodotto
un mio
disco, poi Memphis per l'IBC, Dallas per l'International Guitar
Festival,
Austin per registrare con Anson (ndr Anson Funderburgh famoso
chitarrista
texano), Colorado per il Blues from the Top Festival, Phoenix dove ho
suonato
con Kim Wilson; insomma questa è il mio sesto viaggio negli USA e da
adesso,
avendo un visto che mi permette di vivere o transitare liberamente qui,
passerò
parte dell'anno qui e parte in Europa. Ah dimenticavo, anche in
California! DF:
Ho avuto l'onore di
suonare con Kid Ramos, Junior Watson e... Jimmie Vaughan, ma in casa
sul
divano! SB:
In genere come sei stato
accolto dai musicisti americani? DF:
…. è ormai da qualche anno
che investo in questo paese e collaboro con musicisti d'oltre oceano,
conoscevo
già molti di loro ma devo dire che, in generale, ho avuto
un'accoglienza
incredibile da parte delle persone qui. Sia musicisti che non, e molti
mi hanno
aiutato ospitandomi, presentandomi ad altri e sopportandomi. C'è un
grande
rispetto per il talento ed il sacrificio qui. SB:
Una cosa che puoi dire di
aver imparato da questa esperienza... DF:
Dipende cosa sei disposto
a fare per realizzare i tuoi sogni, con costanza e sacrificio (tanto)
tutto, o
quasi tutto, si può avverare. SB:
Qual'è la differenza più
evidente che hai notato tra i musicisti americani e gli italiani? se
c'è... DF:
C'è, sopratutto se si parla
di musica americana, ovvero quella che suono io e piace a me. C'è molta
più
attenzione alla sostanza, al feeling, al groove e al risultato
finale... più che
alla didattica o tecnica... ecco perché ciò che esce da qui suona
sempre
meglio. SB:
E riguardo al pubblico ed
i clubs? Sempre le differenze... DF:
il pubblico americano ha
di bello che si sa divertire e ama la musica live ma forse è più
superficiale
come "ascoltatore" rispetto all'Europa, specie il Nord Europa. SB:
Ok. Parlando di blues
italiano, secondo te, cosa gli manca per avvicinarsi al livello degli
esponenti
originali di questa musica? DF:
Non sono nessuno per
giudicare altri musicisti... per esperienza personale credo che
spendere
del
tempo qui in USA, a contatto con i veri esponenti di questo genere, sia
fondamentale: è come un'università. SB:
Ok era un discorso
generale non sui singoli. Va bene comunque come risposta.
Ultima cosa e ti lascio. DF: vai! SB:
Se hai un aneddoto particolare
da raccontare anche non legato alla musica od una cosa che ti ha
particolarmente colpito... DF:
Ce ne sarebbero tanti... la
cosa bella di passare del tempo vicino ai maestri è carpire gli
aneddoti e le
storie... e devo dire che ne ho sentite davvero tante... la prima che
mi
viene in
mente... attualmente sto vivendo a casa del leggendario batterista Wes
Starr e
proprio lui mi diceva che diverse volte hanno dovuto "sostituire"
Stevie Ray Vaughan con Omar and the Howlers perché Stevie era troppo
alto di volume e dopo
due
pezzi lo facevano smettere.. Andrea
De Luca ADL:
... che dire Gianni, gli
Stati Uniti sono sempre stati il mio sogno... di chi non lo sono?
soprattutto
per i musicisti che fanno blues, blues/rock... Ormai da più di 10 anni
sono
alla ricerca di un paese dove poter realmente lavorare con la mia
Musica,
facendo concerti, scrivendo e registrando Lp (elleppì... LOL!!) e pur
sapendo
con certezza che il fermento musicale per eccellenza fosse negli
States, ho
esplorato abbastanza approfonditamente l'Olanda, dove sono stato più di
dieci
volte anche per più mesi; un po' l'Inghilterra, la Svizzera, la
Germania, la
Repubblica Ceca ed infine l'isola di Tenerife. Dopo queste esperienze
che in
maniera obliqua hanno segnato la mia vita artistica ho sempre pensato
che fosse
davvero un processo lunghissimo quello di trasferirsi ed inserirsi nel
business
della musica live e quindi ho finalmente focalizzato che l'investimento
migliore sarebbe stato andare in America: Los Angeles?... New
York?... Chicago?... San Francisco? ... E CHI LO SAPEVA??? Quindi un
anno
e mezzo
fa deciso con determinazione che circa un anno dopo sarei partito per
una prima
esperienza, diciamo un sopralluogo di tre mesi, cercando di fare il
meglio per
ottenere un visto che mi permettesse di stare più tempo e magari anche
di poter
già lavorare nell'ambito musicale. Così ho iniziato una lunga trafila
di
ricerca voli, informazioni, amici di amici di amici con dritte e
consigli,
assicurazione medica, esta, patente internazionale, ecc. ecc... e non
per
ultimo
capire come si faceva ad ottenere questo visto artistico. Sorvolo su
tutta
questa fase dicendo che è una bella fatica, che tutto è diverso da come
siamo
abituati noi qui in Italia, che non hai mai la sicurezza di
ottenerlo... io
stesso ancora non ce l'ho ma incrocio le dita h24... e che è una bella
sfida ma
non è impossibile. Approfitto per ringraziare tutte le persone e gli
amici
musicisti che mi stanno aiutando in questo momento sia qui a Roma, sia
li in
America. Tornando a dove sono stato, altrimenti mi picchiate :P ... nel
2010
stavo suonando a Praga con la mia band "The Sharp Donkey" ho
conosciuto un chitarrista californiano in tour in Nord Europa. Una sera
dividiamo il palco in un locale molto bello di Praga il "Popo Cafè
Petl"... Sean Moody, subito molto affettuoso, mi dice di essere tanto
interessato alla cultuna italiana e di aver vissuto per un paio di anni
a
Umbertide, in Umbria, ma che poi la sua band aveva firmato un contratto
con una produzione
inglese che li aveva portati in Repubblica Ceca dove lui ha poi trovato
l'attuale moglie :) tornato in California, siamo rimasti amici per
tutto questo
tempo grazie a Facebook e quando ho detto a Sean che sarei andato negli
Stati
Uniti l'estate 2017, mi ha subito detto "OK man!! you'll have a place
to
stay!!", intendendo che mi avrebbe ospitato per tutto il tempo
necessario
nella sua bellissima casa a Sacramento in California. Ho iniziato così
a
pianificare il viaggio partendo da li e sono stato a Sacramento per un
mese
andando spesso a San Francisco, Oakland, poi a Los Angeles per tre
settimane ed
infine a Portland in Oregon per più di un mese. SB:
Hai incontrato e suonato
con musicisti del posto? ADL:
Si Gianni moltissimi! Un
mio carissimo amico mi ha messo in contatto con Angel Reyes, una
leggenda della
sei corde, originario di Sacramento ma molto famoso in tutta la Bay
Area per
essere stato il chitarrista di Sylvester che nei primi anni settanta
iniziava
l'ascesa verso
le hit-paredes. Angel, oggi un signore di sessant'anni e
più
fissato con Jimi Hendrix, è stato veramente generoso con me offrendomi
la
possibilità di conoscere decine di musicisti e di suonare in locali,
teatri e
backyard parties (le feste private in giardino). Mi ha fraternamente
prestato
una stratocaster molto preziosa (il seriale era cancellato dalla
paletta ma a
detta sua la chitarra era della fine dei 60...) e un bellissimo
amplificatore
Fender Deluxe Reverb, oltre a cavi, stand, capotasto, slide... Inoltre
mi
ha
sempre portato con lui come special guest (spesso pagato) nei suoi
concerti e,
ogni volta che parlava con qualcuno tra colleghi o pubblico raccontava
la mia
storia, mi presentava e cercava di farmi avere informazioni o aiuti per
visto e
naturalizzazione. Grazie a lui ho conosciuto e suonato con Lester
Chambers,
leader della stra-conosciuta band The Chambers Brothers con cui abbiamo
omaggiato Jimi Hendrix insieme con il resto della band, ed Angel Reyes
aprendo
un super rifacimento del musical "HAIR" presso il "Great Star
Theater" nella stupenda China Town a San Francisco. Ho conosciuto
moltissimi musicisti professionisti e suonato con molti di loro, sono
stato
richiesto da subito per sostituzioni e/o creare bands, per fare turni
in studio,
radio shows ed anche per insegnare chitarra e lap steel in uno dei
Guitar
Center di Sacramento (una volta in possesso di un visto lavorativo).
Tutti gli
addetti ai lavori mi hanno accolto come uno di loro immediatamente,
facendomi
davvero un mare di complimenti per quanto stavo dentro il linguaggio
del Blues
risultando assolutamente autentico anche nell'avere un ottimo accento
quando
cantavo ed aiutandomi a capire come fare a potermi trasferire
stabilmente.
Tutti davvero affettuosi, disponibili e ipertranquilli. Quando poi sono
andato
a Los Angeles la musica è cambiata un bel po', una metropoli assurda,
tanto
bella quanto pericolosa se non sai bene dove andare. Ho affittato una
stanza
nel cuore di Hollywood, ho fatto colloqui di lavoro per scrivere musica
da
colonne sonore e brani pop... insomma ho seminato anche li ma è stata
una
manovra
molto più difficile non avendo nessuno che mi potesse introdurre come
Angel ha
fatto tra Sacramento e San Francisco... e terribilmente cara
economicamente
parlando. Durante il mio soggiorno losangelesiano, oltre a frequentare
tutti i
giorni i vari negozi di strumenti musicali per conoscere musicisti, ho
continuato a cercare informazioni sul web su dove poter lavorare con i
concerti
blues nei clubs e ho scoperto che Portland, in Oregon, lo stato più
liberale
degli Stati Uniti, è una grande capitale del Blues. Il caso ha voluto
che
attraverso il social network Linkedin arrivassi ad un chitarrista
turnista di
altissimo livello (sto parlando della band di Carlos Santana) che mi ha
assolutamente
confermato che Portland, tutto lo stato dell'Oregon e lo stato di
Washington
sono certamente posti in cui poter fare il mio lavoro e in cui la rete
di
musicisti blues funziona benissimo credendo loro nel concetto di team,
squadra... famiglia, e dicendomi: "vai ragazzo, se sei forte come
credo, li
troverai la tua strada!". Detto fatto: ho deciso di andare a Portland
immediatamente e ho iniziato a cercare su Facebook i bluesman della
zona che
sin da subito mi hanno aiutato e chiesto di fare date insieme, di
scrivere
brani originali, creare progetti e registrare dischi... INCREDIBILE!!
Sono
partito il 23 agosto e inizialmente ho avuto un po' di problemi per
trovare un
alloggio ma in una settimana mi ero stabilito ed ero pronto per
lavorare. Anche
qui, ho avuto il supporto di musicisti come Ben Rice, un giovane
bluesman di
Portland che vanta già degli awards rilasciati da diverse Blues
Society,
riconoscimenti come miglior chitarrista blues dello stato dell'Oregon e
circa
200 date l'anno tra clubs, ristoranti e festivals blues anche in
Colombia e
Messico; oppure Dave Melyan, batterista blues impegnato in vari
progetti,
che mi
ha detto subito che sarebbe stato contentissimo di fare una o più bands
con
me... Infatti, in poco più di un mese ho fatto più di venti concerti
tra
serate
da special guest, house band per jam sessions, concerti da leader in
trio o
quartetto e anche un paio di concerti da duo acustico. Anche nella
città delle
rose, così chiamano Portland in America, ho trovato possibilità di
insegnare in
piccole e medie scuole di musica. E' stato pazzesco, dopo la prima
settimana
trascorsa a cercare un posto dove stare e a dare in giro bligliettini
da
visita, il mio telefono ha iniziato a squillare e ho iniziato a suonare
in
giro. SB:
Hai notato differenze tra
il pubblico ed i locali americani e quelli nostrani? ADL:
si Gianni! e la
differenza è sostanziale. Ti spiego come vanno di solito le cose.
Facciamo
conto che si suona dalle 6 alle 9 di sera in un posto a 30 miglia da
Portland.
Si parte alle 5, si arriva sul posto alle 5,30, scarichi, fai un breve
check e
inizi a suonare, puoi ordinare da bere e la cena per dopo il concerto,
spesso
open bar oppure 2/3 consumazioni, tutti con il sorriso e tutti contenti
che ci
sarà della musica dal vivo per un pubblico che sta in silenzio quando
si suona,
sta in silenzio quando si presentano i brani ed è affettuosissimo con
te che
stai facendo con passione il tuo lavoro sul palco. Anche i fonici
quando ci
sono ti trattano con simpatia, disponibilità e professionalità. Ogni
sera,
oltre al chachet pattuito con il locale che puo' oscillare tra i 70/80$
ai 150$
per musicista, ci si dividono le famose tips (mance) e spesso superano
il
cachet... quindi è molto probabile che se suoni in trio in un bel
locale
pieno,
nel contenitore delle tips troverai anche 200/300$. La cosa più bella è
vedere
gli sguardi che ti lancia la gente quando viene a darti una mancia, ti
sorridono, ti fanno i complimenti e ti ringraziano per la musica che
stai
facendo per loro. Durante le pause, il contatto con il pubblico è
assicurato,
loro vengono da te a chiederti dove risuonerai il giorno dopo (perchè
li è
normale che tu suoni 3/4/5 volte a settimana), se hai un profilo Fb o
se su
altri social e tu gli dai il bigliettino da visita... e così nasce
tutto, cominciano
a scriverti e chiederti dove poter ascoltare la tua musica live o
comprare i
tuoi dischi e l'affiatamento è inevitabile.. SB:
Come sei stato accolto in
genere? ADL: sono sempre stato accolto con calore e gentilezza, tutti molto orgogliosi di avere nel club o nello studio di registrazione un artista come me proveniente da così lontano e così determinato nel creare il suo futuro nella terra a stelle e strisce. Tutti davvero stupiti dal mio modo di fare la mia cosa... I love the way you do your thing... SB:
Cosa ti ha più colpito di
questo viaggio? ADL:
la tranquillità delle
persone in Oregon, la disponibilità, la voglia di fare, quanto
circolano i
soldi, costo della vita doppio ma guadagni perfettamente proporzionali,
il
livello di civiltà, la grandezza delle strade, quanto è diverso
viaggiare anche
per 400 miglia sulle freeways, il costo della benzina, quanto funziona
tutto
alla perfezione. Un'altra vita, davvero. SB:
Cosa hai imparato suonando
nella terra del blues? ADL:
ho imparato che non è
possibile se sei un musicista non conoscere la tradizione del blues, i
turn
arounds e le strutture dei blues classici. Infatti all'inizio di ogni
brano
quando si fa una serata insieme, il leader ti dice quali sono i gradi
della
scala su cui gira il pezzo... tipo "that's a One Five One For Five
starting from the Five"... sarebbe un blues primo quinto primo quarto
che
parte con una intro dal quinto grado... tutti conoscono questo tipo di
armonia,
non solo chi suona uno strumento armonico ma anche cantanti e
batteristi che
conoscono anche tutti i tipi di accordi... che meraviglia. Ho imparato
inoltre
che ci possono essere i tempi tecnici sul palco, ad esempio quando hai
più
strumenti e più accordature nessuno ti metterà fretta nel tuo cambio
strumento,
né i tuoi colleghi né il pubblico. Ho imparato che per conquistare le
persone
devi raccontare la tua storia, ti devi aprire, spiegare la tua emozione
o
magari raccontare cosa ti è successo nello scorso concerto... e loro
sono
li per
ascoltarti, in silenzio oppure partecipando attivamente alla
conversazione. SB:
Quale è la differenza più
evidente che hai notato tra i musicisti americani e gli italiani? ADL:
più di qualcuno mi ha
detto "... if you are cool you are cool and you deserve to work with us
and
that's it... you are very welcome in our big blues family - se sei
forte
sei
forte e meriti di lavorare con noi e questo è tutto, ti diamo il ben
venuto
nella nostra grande famiglia blues". Questa frase me l'ha detta anche
Dover Weinberg uno dei pianisti della band di Robert Cray, originario
di
Portland e tanti altri come il chitarrista e il bassista del progetto
"The
Blind Boys of Alabama", Ed Neumann, Lester Chambers, Bo Ely, Frankie
Munz,
John Jr. Mayers, Randy Carey, Roharpo Bluesman e tantissimi altri.
Sostanzialmente se il tuo modo di fare musica piace loro cercano in
tutti i
modi di inserirti e creare nuove bands con te così si lavora di più
tutti
quanti! SB: Cosa manca secondo te (se manca) al blues
italiano per essere al livello di quello originale? ADL: Gianni tu lo sai, sono già tanti anni che
cerco di fare blues in Italia e quello che manca, non per essere banale
ma è
proprio la meritocrazia. Sinceramente ho avuto più opportunità stando
tre mesi
in America che negli ultimi anni nel nostro paese. Pur vantando
progetti di
livello altissimo, e cito la mia collaborazione con Dean Bowman (ex
leader
degli Screaming Headless Torsos), con Mark Peterson (contrabassista e
bassista
per leader tipo Gloria Gaynor, Joan Baez o James Blood Ulmer), con
Roberto
Gatto (noto batterista jazz italiano, forse il più famoso), faccio
davvero una
fatica immane a suonare in giro per l'Italia. Tutto bloccato, tutto
pieno, e di
tutto si parla meno che di musica. Spesso gli organizzatori o gestori
dei
locali non rispondono per niente alle tue proposte o telefonate, ti
fanno
richieste assurde che magari neanche saranno rispettate, oppure ti
dicono
"... ma si fai bene, vattene in America che qui non c'è posto per
musicisti
del vostro livello". Tutto questo meccanismo azionato in parte dai
musicisti che decidono di fare i bluesman come hobby e che possono
posizionarsi
al posto dei professionisti anche in molti festivals della penisola e
nella
maggior parte dei locali, non pretendendo cachet proporzionati ai
contesti e
segando così le gambe a chi vorrebbe realmente preservare il valore del
Blues
nella nostra amata Italia e farne un lavoro. Cosa manca? Manca una
reazione,
manca la squadra di cui sopra e molti di noi prendono la decisione di
ricominciare altrove. SB:
Un aneddoto che vuoi
raccontare di questo viaggio, non necessariamente legato alla musica. ADL:
una sera suono al Barbery
di McMinnville, un bellissimo ristorante con musica dal vivo che si
trova ad un
centinaio di chilometri da Portland. Una serata piovosa e il locale non
era
pieno come al solito. Faccio il mio concerto, smonto, mangio la gustosa
mega
insalata vegan richiesta durante il check e quando il direttore
artistico viene
a pagare la band dice "... scusate ragazzi, deve essere colpa della
pioggia
e questa sera non c'era tanta gente, mi dispiace tanto, voi meritare il
locale
pieno... infatti siete stati fortissimi come sempre e tu, ragazzo
italiano, dammi
i tuoi contatti perchè quando tornerai voglio ingaggiarti come artista
fisso
nel mio calendario!!". Cos'altro devo aggiungere? Stefano
Carboni SB:
Perchè hai deciso di
andare negli States e quali posti hai visitato? SC: Ho fatto un itinerario al contrario quindi dal Chicago blues a Chicago e fino al delta blues in Mississippi per poi concludere in Louisiana. Quindi ho visitato Chicago, Memphis, Clarksdale, Tunica, Greenwood, Natchez, Baton Rouge e New Orleans. Ho deciso di andare negli Stati Uniti perché dopo tanti anni di passione e di pratica del Blues mi sono reso conto che era necessario andare oltre, esplorare quindi le radici di questa musica che amo tanto. Ci ho un messo diversi mesi a realizzare e a programmare questo viaggio in quanto sapevo che per molti versi avrei avuto solamente un'occasione da sfruttare per approfondire tutto ciò che avevo intenzione di apprendere. In questo modo ho vissuto i preparativi del viaggio senza tralasciare nessun dettaglio considerandolo come l'unico viaggio che avrei fatto nella terra del blues. Ragionando in questi termini sapevo che, anche se in realtà probabilmente non sarebbe stata l'unica volta che avrei visitato quei luoghi, che non sarebbe sfuggito nulla ai miei occhi, alle mie orecchie; avrei catturato qualsiasi immagine qualsiasi suono e qualsiasi emozione mi si fosse presentata. SB:
Hai incontrato e suonato con musicisti del
posto? SC:
Sì ho incontrato tanti musicisti e suonato in tutte le città che ho
visitato.
In particolar modo, partendo da Chicago sono andato a trovare il mio
amico Tony
Mangiullo proprietario del Rosas' Lounge con il quale quella sera ho
suonato.
Lui è un ottimo batterista che nella sua
carriera di imprenditore
musicista ha
suonato con Junior Wells e Buddy Guy e con tantissimi altri
esponenti del
Chicago blues, e così ho avuto l’onore di partecipare ad una session
con
l'armonica e con alcuni brani che ho cantato in compagnia di questa
band in cui
si alternavano alla voce anche lo straordinario Willy Buck e Mary lane,
tutti e
due con più di ottant'anni di età e quindi circa cinquant'anni di Blues
forse
anche 60 dentro le loro ossa. Poi al B.L.U.E.S. club con il grande
Carlos
Johnson che a sorpresa mi ha invitato sul palco facendomi esibire con
l’armonica in un blues strumentale, per rendermi protagonista della gig
come
solista e per non mettermi in secondo piano cantando con la sua voce
possente.
Impressionante la delicatezza e gentilezza di quest’uomo che prima si
limava le
unghie con la lima da fabbro e poi è stato capace di avere
un'attenzione così
grande per me senza nemmeno conoscermi (ci aveva presentato poco prima
un
amica comune che ringrazio ancora oggi Rita Stile). Poi, appena
arrivato
a
Menphis, grazie a i contatti del mio amico Massimo Bevilacqua sono
stato
accolto
dal suo amico, e spero ormai anche mio amico, Tom Gorbea che mi ha
subito
accompagnato al BB King club di Memphis in Bale Street dove c'era la
band del
grande Blind Mississippi Morris e alla chitarra l'amico Frank
Monteleone il
quale, pur non trattandosi di una Jam, mi ha invitato sul palco e per
una
session di circa 5/6 brani dopo i quali sono sceso dal palco e
abbracciando Tom
non sono riuscito a trattenere le lacrime per l'emozione di essere lì
in quel
momento e di aver partecipato a una Gig strepitosa. Infine a Clarksdale
ho
conosciuto un grande amico è un grande musicista, Stan Street, il quale
mi
introdotto nella Gig più figa del mondo, quella al Ground ZeroBlues
Blues club
dove ho conosciuto Lala, pianista strepitosa, Big A, chitarrista e
cantante
giovane ma talentuoso, e Lucius Spiller bassista, chitarrista e
cantante.
Naturalmente c’era anche il grande Stan Street, armonicista,
batterista,
cantante,
oltre che pittore e scultore. Anche a Clarksdale ho suonato e
cantato i classici
del blues, con un pizzico di emozione in più dopo aver visitato il
Delta Blues
Museum dove è conservata una stanza originale della casa di Muddy
Waters
prelevata dalla Stovall Plantation dove crebbe fino a all’età di 30
anni e dove
fu scoperto con la prima registrazione dall’etnomusicologo Alan Lomax. SB:
Hai
notato differenze tra il pubblico ed i locali americani e quelli
nostrani? SC:
Sì
ci sono delle differenze tra il pubblico che abbiamo in Italia e il
pubblico
che c'è in America, naturalmente la cosa più lampante è la grande
partecipazione
e che hanno negli Stati Uniti nell'ascoltare il Blues soprattutto nel
Sud dove anche in locali non molto accoglienti dal punto di vista
estetico
puoi trovare un pubblico giovane, un po' più attempato, la signora che
vedi a
fare la spesa al supermercato, piuttosto che la coppia di giovani
innamorati
che si abbracciano mentre ascoltano il Blues. Non trovi nessuno che
guarda il
cellulare nessuno che fa foto e video, ma tutti attenti a ciò che
ascoltano. la
differenza fondamentale è che il Blues è concepito non come
intrattenimento ma
come un evento, non si tratta di musica dedicata al sottofondo, non si
tratta di
musica che necessariamente deve essere conosciuta per essere poi
cantata dal
pubblico, non deve essere un brano o più brani che passano in radio
tutti
giorni, semplicemente il pubblico in quei luoghi apprezza anche
solo il
modo di suonare, il groove, il ritmo, il talento e soprattutto
percepisce
a mio
parere l'anima di chi sta suonando attraverso le note degli strumenti e
dalla
voce, questo naturalmente porta ad una grande partecipazione sia in
termini di
numero che in termini di coinvolgimento. SB:
Come sei stato accolto in genere? SC:
Sono
stato accolto sempre molto bene in tutti i posti dove sono stato e
soprattutto al
Sud dove i rapporti umani rispetto alle grandi città sono privilegiati,
c'è
quella calma e quel tempo in più che può essere dedicato a una semplice
chiacchierata, piuttosto che sedersi fuori da Riverside Hotel a fare
due
chiacchiere, piuttosto che fuori da un locale a fumarsi una sigaretta.
Sono stato
accolto molto bene anche dai musicisti con cui ho suonato, mi hanno
fatto
sentire a mio agio, mi hanno fatto molti complimenti, addirittura a
volte da
risultare imbarazzanti per me. Ma la cosa che mi ha colpito di più è
stata la
incapacità da parte loro, e questo è un complimento, di trattenere Le
emozioni,
e quindi ti trovi di fronte a persone che non hanno filtri nel bene nel
male
quindi se vogliono se ti vogliono abbracciare ti abbracciano... e se
dopo
aver suonato
non vogliono che tu vada via ti dicono "riporta il tuo culo su quel
palco". SB:
Cosa ti ha più colpito di questo viaggio? SC:
La cosa che mi ha colpito di
più di
questo viaggio, a parte la musica, è stato il fatto di poter vedere un
lato
degli Stati Uniti che pochi vedono. Tutti vanno a visitare che grandi
città che
ormai sono globalizzate e che sono molto europee nelle abitudini,
mentre
visitando luoghi come Memphis, Clarksdale, Natchez, Baton Rouge e New
Orleans,
ti rendi veramente conto che la vita lì è diversa, per alcuni aspetti
puoi
notare la Depressione economica che si contrappone alla Gioia di
vivere,
ed il
Blues che loro rivendono per convenienza come musica triste ma in
realtà
esprime tutta la loro voglia di vivere. La grande ospitalità del Sud e
la gioia
della condivisione, anche con persone apparentemente sconosciute, e la
voglia
di fare musica esaltandosi ogni sera su un palco diverso, mi hanno dato
la
certezza che per loro il Blues è linfa vitale non solo dal punto di
vista
economico. SB:
Cosa hai imparato suonando nella terra del Blues? SC:
Ho imparato che
bisogna vedere oltre le apparenze, che dietro una baracca (shack)
trasformata
in bed & breakfast, puoi trovare un mondo di idee, inspirazioni ed
emozioni, che non importa se non sei perfetto, l’importante è che ci
metti il
cuore oltre allo studio, che se sali sul palco per suonare e sei
emozionato,
oltre alla musica ascolteranno anche i tuoi sentimenti. Con questo non
dico che
non giudichino la qualità artistica di un musicista, ma che per loro
non
basta. Non basta essere bravi a suonare, è necessario dare tutto senza
risparmiarsi. A me personalmente, suonare nella terra del Blues, ha
lasciato
una grande forza e una grande energia che sarà sempre il mio
carburante nei
momenti di down e ogni volta che salirò su un palco per suonare Blues. SB:
Quale
è la differenza più evidente che hai notato tra i musicisti americani e
gli
italiani? SC:
La grande differenza che ho notato tra i musicisti italiani di blues
e i musicisti americani è quella che chiamerei sportività, non esiste
una
grande competizione, non esiste invidia, almeno ai miei occhi, esiste
la
condivisione della musica che loro amano suonano e che noi amiamo e
suoniamo. Poi, un'altra cosa importante che ho notato è che molti di
loro soprattutto
nel Sud,
forse anche per la necessità di suonare più spesso e di arrangiarsi, è
che
ciascuno di loro spesso suona più di uno strumento, ad esempio Lucius
Spiller
che oltre a cantare, suona il basso e la chitarra, e questo per far
capire che
probabilmente non bisogna essere necessariamente degli specialisti di
uno
strumento ma semplicemente bisogna conoscere lo strumento e quello che
si sta
suonando quindi meno tecnicismi e più anima questa è la differenza
lampante.
Un'altra differenza è che spesso molti di questi musicisti mescolano le
loro band
in base alle loro necessità quindi se la sera prima
si suona in un
locale si
canta e si suona la chitarra con un trio, il giorno dopo li puoi
trovare
con la
band resident di una Jam. Quindi molto spesso soprattutto in piccole
città come
Clarksdale si ritrovano a suonare le stesse persone con formazioni
diverse da
un giorno ad un altro senza invidie o competizioni tra di loro. SB:
Cosa manca
secondo te (se manca) al blues italiano per essere al livello di quello
originale? SC:
Sinceramente penso che da un punto di vista tecnico non ci sia una
carenza da parte di musicisti italiani blues rispetto ai musicisti
americani,
la grossa differenza è data invece da quello che loro trasmettono
attraverso il
blues con qualsiasi strumento, dall'armonica bocca, alla chitarra, al
pianoforte, lo strumento è solamente un prolungamento delle mani e
della
voce.
Non stanno lì a controllare se fai una nota sbagliata, oppure se sei un
po'
calante su una nota, oppure se non fai degli assoli strumentali da
funambolo,
loro secondo me vedono oltre ed è stata la sensazione che ho avuto io
anche per
quanto riguarda me stesso e mi spiego come loro mi hanno percepito.
Chiaramente
attraverso la loro musica e attraverso le loro voci, non si preoccupano
solamente del lato tecnico o del lato economico, e tutto questo
chiaramente
influenza anche il modo che hanno di rapportarsi con il pubblico
coinvolgendolo
molto perché loro stessi sono coinvolti in ciò che stanno suonando
questa è la
differenza fondamentale secondo me. SB:
Un aneddoto che vuoi raccontare di questo
viaggio, non necessariamente legato alla musica? SC: Non riesco a scegliere un solo aneddoto da raccontare, ce ne sono diversi… ma sicuramente un aneddoto curioso del mio viaggio, legato indirettamente alla musica, è avvenuto nella piccola cittadina di Natcehz, circa 300 miglia a sud di Clarksdale. Siamo arrivati di sabato pomeriggio, e alle 17 ora locale tutti i negozi erano già chiusi. Passeggiando per le strade non c’era nessuno, l’aria era calda e umida, abbiamo girato tutto il paese e visto i bellissimi edifici storici, e il giorno dopo, essendo domenica, siamo andati a cercare una messa Gospel. Arrivati nei pressi di una chiesa abbiamo visto che stava per iniziare e siamo entrati, siamo stati accolti dal diacono e all’entrata delle signore vestite tutte uguali ed a mo’ di hostess ci hanno fatto sedere, e sempre in silenzio e con il massimo rispetto, ci siamo seduti in fondo visto che eravamo gli unici turisti presenti. C’era un Coro di quattro donne over 50 e una quinta che suonava il piano verticale. Cantavano divinamente e oltre a loro il Reverendo, alto e robusto, con una lunga barba bianca, con voce stentorea, cantava meravigliosamente da solista. Ci hanno fatto compilare una tessera con i nostri dati e una di queste signore poi è andata al microfono per dire a tutti che noi eravamo li ed eravamo venuti da Roma. Il Reverendo dopo averci ringraziato ci ha dato una sorta di benedizione e subito dopo tutte le persone presenti sono venute a salutarci in fondo alla chiesa con grandi sorrisi e con grandi abbracci. Momento da pelle d’oca essere abbracciati da decine e decine di sconosciuti senza però provare il minimo disagio, eravamo stati accolti nel modo migliore come in una casa e così ci sentivamo, a nostro agio e circondati da amore sincero. La cosa divertente è stata che ci hanno consegnato anche dei gadget della chiesa come il buon marketing insegna, una busta brandizzata con un pacco di fazzoletti, il liquido per igienizzare le mani, una penna con il nome della chiesa e un foglio con una preghiera. Siamo usciti da lì con il cuore pieno di gioia e gli occhi lucidi. Abbiamo compreso cosa significa per loro essere senza filtri, senza maschere, nell’esprimere i loro sentimenti. Altro episodio da ricordare è stato quando ho visitato la tomba (quella vera) di Robert Johnson, che più che un aneddoto è stata una sensazione che porto con me ancora oggi. Eravamo a Greenwood e grazie alle preziosissime indicazioni di Massimo Bevilacqua siamo arrivati alla chiesa accanto alla quale c’era il cimitero dove fu sepolto Johnson. Una lapide grande con intorno bottiglie semi vuote di Bourbon e sigarette, e guardandola ho avuto la sensazione di essere arrivato come alla fine di un viaggio, finalmente sentivo di essere tornato a casa dopo tanti anni e tantissimi chilometri. Chiaramente è la follia di un uomo che vede il Blues non solo come una passione ma come un mondo che gli appartiene, ma questo è sinceramente ciò che ho provato.
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