Il Mississippi e il soffio della mia anima blues
di Fabrizio Poggi
Fa un caldo infernale ad agosto a Memphis e in Mississippi. Ci sono sempre
cinquanta gradi all’ombra. Forse è per questo che li chiamano i “dog days of
august”, perché in giro per le città non trovi nessuno, nemmeno un cane. Non
trovi in giro neanche un’anima perché tutti sono appiccicati al
ventilatore che
pende dal soffitto o al bocchettone dell’aria condizionata. Unica salvezza e
unico refrigerio una musica che spesso è stata dipinta come
diabolica e sulfurea: il blues. Solo un pazzo può avventurarsi in quelle lande
desolate in quei giorni “dannati”, solo chi come me è innamorato pazzo del blues
e della terra che lo ha generato. Non ero ancora atterrato a Memphis che già mi
risuonavano nelle orecchie le parole del mio eroe ed amico Charlie Musselwhite,
il leggendario armonicista. “Se ti capita di passare per il Delta, il blues ti
cambierà per sempre… La musica di queste parti sembra venire fuori dalla terra
dei campi e dalla polvere delle strade… E non sarai più lo stesso...” Queste le
parole che il mio amico Charlie, originario del Mississippi, ha usato per
descrivermi la sua terra d’origine quando qualche anno fa in occasione del mio
primo viaggio, gli ho chiesto notizie sulla “terra del blues”. E aveva ragione.
Quest’anno sono tornato in Mississippi con uno spirito diverso, sono tornato con
la voglia di comunicare il mio modo di “sentire” il blues e non c’era altro da
fare, anche se difficile ed emozionante al tempo stesso, che andarlo a suonare a
Memphis e in Mississippi, là dove tutto è cominciato e dove sono nati coloro che
hanno fatto del blues una musica universale: Robert Johnson, Muddy Waters, John
Lee Hooker, Charlie Patton, Son House, B.B. King, Sonny Boy Williamson e tanti
altri. Nulla di tutto ciò che mi è successo sarebbe stato possibile, senza
l’aiuto di due indispensabili e perfetti compagni di viaggio: mia moglie
Angelina (che in Texas e in Louisiana è già un mito e presto lo diventerà anche
in Mississippi) e Francesco Garolfi l’eccellente cantante e chitarrista con il
quale suono da qualche tempo. Certo non è stato facile per me e Francesco
suonare in posti dove sentivi davvero la storia del blues uscire dalle pareti ed
entrarti nella pelle facendoti vibrare come la corda di una chitarra o come
l’ancia di un’armonica. E non è stato per niente “easy” cantare il blues in
qualche “juke joint” sperduto tra i campi di cotone in cui c’erano solo tre
macchie bianche: Francesco, l’Angelina ed io. Eppure ce l’abbiamo fatta, siamo
riusciti a trasmettere il nostro modo di “sentire il blues”. Angelina si
commuoveva ogni volta che una signora afroamericana di una certa età veniva ad
acquistare il disco e poi ringraziava me e Francesco per averla fatta
emozionare. E’ vero che ho suonato spesso negli States e ancora più spesso “sono
riuscito a vendere il ghiaccio agli eschimesi”, ma questa volta c’era qualcosa
di diverso, qualcosa di più. Credevo davvero che Dio mi avesse fatto un grande
dono quando mi ha permesso di suonare con Jerry Jeff Walker e Willie Nelson, due
eroi della mia gioventù, ma non sapevo che aveva in serbo per me emozioni ancora
più grandi seppure all’apparenza semplici e spontanee. Emozioni che solo il
blues riesce a darti. E alla gente che non riusciva a spiegarsi come io e
Francesco riuscissimo ad interpretare il blues in maniera così “autentica e
credibile”, io raccontavo che questa è la magia del blues, una musica nata dalla
sofferenza di un popolo ma capace di “parlare” all’anima di persone nate e
cresciute in posti anche molto lontani fra loro. Il blues è davvero un
“linguaggio universale” e forse il blues è l’unico villaggio globale possibile.
E mi sono davvero sentito privilegiato a suonare il blues a Memphis e in
Mississippi. Sempre, quando soffio nella mia armonica un blues o una canzone
popolare, sento davvero che qualcuno più grande di me mi ha dato un grande dono:
quello di toccare, a volte, l’anima delle persone. Sento che mi è stato dato il
privilegio e la possibilità di toccare le corde più segrete delle persone, corde
che stanno nel profondo della loro anima e che vengono mostrate solo in
particolari occasioni, perché appartengono a qualcosa di molto intimo; corde che
vibrano solo se si riesce a stabilire un contatto fatto di emozioni semplici e
sincere. Ed è con questo stato d’animo che la mattina seguente al nostro arrivo
abbiamo suonato “Crossroad blues” e “Diving duck blues” in televisione alla CBS
di Memphis. E non ci eravamo ancora abituati al fuso orario che la stessa sera
suonavamo al Center for Southern Folklore ad un concerto organizzato dalla Blues
Foundation, l’organizzazione mondiale che ha l’encomiabile obbiettivo di
preservare, divulgare ed aiutare il blues e i suoi musicisti quando sono in
difficoltà. Lì sono saliti a “jammare” con noi Johnny Holliday e Brad Webb, due
musicisti piuttosto noti sulla scena blues di Memphis. “Restituiremo” loro il
favore intervenendo il venerdì della settimana successiva ad una loro esibizione
al leggendario Blues City Cafè di Beale Street, nel centro di Memphis. Certo
deve essere stato emozionante per Francesco alla sua “prima volta” in America
vedersi riconosciuto al ristorante con la gente che ci diceva “Hey vi ho visto
stamattina in TV. Mi siete piaciuti tantissimo! Ma davvero siete italiani?” Ma
le sensazioni forti non erano finite per Francesco perché il giorno seguente con
Capitan Angelina alla guida di una fiammante Chevrolet ci dirigevamo verso
Clarksdale, Mississippi percorrendo la leggendaria Highway 61, forse la strada
più celebrata in musica. E fa sempre un certo effetto arrivare a
Clarksdale
passando davanti alla piantagione dove ha lavorato Muddy Waters o davanti al
vecchio emporio che Charlie Musselwhite ha voluto mettere sulla copertina del
suo “Delta Hardware”. Da lì sono partiti con la loro valigia di cartone tutti
coloro che hanno fatto la storia del blues ed è lì che si volge quello che da
molti è considerato come il blues festival più autentico d’America. Non ci sono
grossi nomi al Sunflower Blues and Gospel Festival ma proprio lì sta il motivo
del suo fascino: la gente lo ama perché in quei giorni il tempo sembra essersi
fermato a quando il blues si suonava sotto le verande delle baracche in cui
vivevano gli afroamericani. Una musica semplice per la gente semplice lontana
dal clamore e dalle mille luci delle arene rock. E davvero non c’è stato quasi
il tempo di seguire il festival perché il nostro calendario dei concerti era
davvero fitto. Il mercoledì abbiamo suonato al Walnut Street Blues Bar di
Greenville, Mississippi, la città che il grande Little Milton chiamava “casa” e
e il giovedì siamo tornati a Clarksdale per intervenire musicalmente alla festa
d’inaugurazione del festival che si teneva in una splendida villa coloniale
(alla “Via Col vento”) di proprietà di Panny Mayfield una delle organizzatrici
del Sunflower Festival. Lì quello che doveva essere un normale incontro con la
stampa si è trasformato in una colossale jam session che ha visto Francesco ed
il sottoscritto duettare con C.V. Veal (batterista per oltre vent’anni con Ike
and Tina Turner), Wesley Jefferson e altri musicisti in una scatenata versione
di “Dust my broom”. Il tutto ripreso da una troupe televisiva californiana che
dedicherà all’evento una delle puntate della famosa serie “On the road to
America”. Il suonare insieme scambiandosi note musicali ed emozioni sublimi è
davvero una grande prerogativa dell’America e quando i musicisti parlano la
stessa lingua sonora ci si sente davvero di essere parte della “stessa famiglia”
e il “jammare” diventa quindi una cosa spontanea e semplice che il pubblico
apprezza enormemente. La gente si è davvero divertita quando a sorpresa al Delta
Amusement Cafè di Clarksdale si sono uniti a noi il grande Bill “Howl’N’Madd”
Perry e quel personaggio davvero notevole che è Bob “Mississippi Spoonman”
Rowell ottimo cantante e suonatore di cucchiai “blues”. Questi bravissimi uomini
di blues sono solo alcuni dei tanti eroi/amici che abbiamo incontrato in
Mississippi. E ci siamo davvero immersi nella storia del blues quando abbiamo
incontrato di nuovo gente come Dick Waterman leggendario fotografo e
“scopritore” di leggendari musicisti dimenticati come Son House, Mississippi
John Hurt e Mississippi Fred McDowell o Steve LaVere l’uomo che ha dedicato una
intera vita a scoprire tutte le registrazioni e le mitiche due fotografie di
Robert Johnson. Steve LaVere oggi è proprietario di un edificio nel centro di
Greenwood, Mississippi, non troppo distante dal luogo dove è sepolto il
leggendario bluesman: il piano terra è un locale che si chiama “Blue Parrot” ed
il piano di sopra è un museo dove sono custoditi cimeli che farebbero la
felicità di ogni appassionato di blues. E lì c’è davvero da perderci la testa:
dalle chitarre appartenute a famosissimi ed oscuri bluesmen, alle armoniche e
alle lettere che scriveva alle sorelle Sonny Boy Williamson, a vecchi 78 giri
che farebbero “impazzire” anche il più navigato dei collezionisti. Ho conosciuto
Steve qualche anno fa quando ho donato al museo una copia del mio libro
sull’armonica blues e quest’anno quando ha saputo che eravamo in giro per
concerti ha voluto assolutamente che andassimo a suonare al Blue Parrot. Beh,
farsi fare i complimenti da uno che di blues se ne intende e parecchio vi
assicuro che avrebbe fatto vacillare anche l’uomo più freddo del mondo.
Figuratevi cosa è successo a me che al cinema mi commuovo per un nonnulla. E
Steve ci ha aperto gli armadi del suo museo mostrandoci cose che ancora nessuno
ha visto e facendoci toccare i vecchi vinili di Robert Johnson, privilegio che
come dice lui concede solo a chi conquista il suo cuore. E quanti racconti su
come ha ritrovato le foto di Robert Johnson, sul caratteraccio di Harmonica
Frank Floyd o sulla carriera di contrabbandiere di whiskey di Mississippi John
Hurt. Steve LaVere ci ha rivelato che in verità esiste anche una terza foto di
Robert Johnson. Si trova a Houston, Texas, dove viveva la sorella del mitico
bluesman ma il proprietario non vuole per qualche “strano motivo” renderla nota.
E pensare che tutto è partito da quella foto. Robert Johnson si trovava a
Houston in visita alla sorella per salutare il nipote che partiva per il
servizio militare. Per festeggiare l’evento zio e nipote, vestiti di tutto
punto, andarono da un fotografo locale per farsi ritrarre insieme. Mentre erano
lì la sorella propose a Robert di approfittare dell’occasione e di farsi fare
una foto “professionale” con la chitarra. Così è nata una delle immagini più
famose nel mondo del blues! Un discorso a parte poi, e un meritatissimo applauso
vanno senz’altro tributati a Roger Stolle che attraverso il suo Cat Head, che è
molto più di un semplice “spaccio” di dischi, libri e “folk art”, è diventato
protagonista
indiscusso di un autentico ”rinascimento” della terra del blues,
della sua musica, del suo artigianato. Nel suo negozio Francesco ed io abbiamo suonato davanti a decine di avventori indecisi ed eccitati come un bimbo nel
paese dei balocchi tra un disco di ruspante country-blues e l’eccellente dipinto
in stile naif di uno sconosciuto pittore “blues”. Nel Delta, l’ho già scritto,
ma vale la pena di ripeterlo, non c’è luogo che non sia collegato in qualche
modo al mondo del blues, ai suoi miti e alle sue leggende. C’è però per me un
posto e una persona che per me valgono più di tutto. Le emozioni più grandi
infatti mi aspettavano anche quest’anno ad Helena, in Arkansas, che sembra un
posto lontano dal Mississippi ed invece è appena al di là di un ponte sul grande
fiume. In questa cittadina è nata nel 1941 la prima trasmissione dedicata al
blues, la famosa “King Biscuit Time” per merito di un gruppo di musicisti
destinati a fare la storia del blues: Sonny Boy Williamson II, Robert Jr.
Lockwood, Pinetop Perkins e tanti altri. La radio, la mitica KFFA, è ancora viva
e vegeta e anche la leggendaria trasmissione gode di ottima salute soprattutto
grazie ad un grande uomo: Sonny Payne che da più di cinquant’anni tutti i giorni
a mezzogiorno e un quarto trasmette il leggendario programma. L’anno precedente
Sonny mi aveva invitato a suonare in diretta al King Biscuit Time. Io avevo
soffiato dentro la mia armonica ma l’emozione era stata così forte che solo
qualche giorno dopo ho realizzato che la mia musica era passata attraverso gli
stessi microfoni dai quali nel 1941 Sonny Boy Williamson, per me il più grande
armonicista di tutti i tempi, faceva ascoltare il suo blues in tutto il
Mississippi e dintorni. Un amico previdente aveva scaricato in Italia la
trasmissione e allora per condividere questa mia grande gioia con chi mi segue e
mi apprezza ho voluto inserire una parte di quel momento nel mio cd intitolato:
“The breath of soul”. Non stupitevi se quando lo andrete a trovare vedrete Sonny
con un cappellino con la scritta Italia: gliel’ho spedito qualche Natale fa e
lui se l’è messo il giorno che io e Francesco siamo tornati a suonare alla
mitica trasmissione. E le parole che mi ha detto a proposito della passione che
metto nella mia musica vorrei che un giorno venissero davvero scritte sulla mia
lapide. Sono parole troppo belle perché siano dimenticate. Sono sicuro che
resteranno scolpite e nascoste segretamente nel mio cuore per il resto della mia
vita. Cosi come non dimenticherò mai più la cordialità della gente comune che ho
incontrato suonando al mitico Ground Zero di Clarksdale o alla Hopson Plantation
dove Pinetop Perkins è cresciuto raccogliendo cotone. E nonostante la stretta
allo stomaco che ho provato visitando il Museo dei diritti civili a Memphis,
nonostante abbia visto con le lacrime agli occhi la camera del Lorraine Motel
dove è stato ucciso Martin Luther King, nonostante ci sia ancora qualcuno nel
mondo a cui danno fastidio i cartelli con la scritta “I am a man – io sono un
uomo”, nonostante ci sia ancora parecchia strada da percorrere per fare
diventare il sogno di Martin Luther King una realtà; nonostante tutto questo io
non ho perso la speranza in un mondo migliore e credo che la musica ed il blues
possano fare davvero molto. L’ho imparato in Mississippi dove mi sono sentito
parte della grande famiglia del blues, una famiglia dove il colore della pelle
non fa la differenza, dove, almeno per una volta, l’unico colore che conta è il
blues, l’unica musica che può guarire “il male di vivere”, la malinconia. Le mie
avventure in Mississippi non sono passate invano sulla mia pelle e adesso
finalmente forse posso dire che sono diventato migliore, sono diventato un uomo
– I am a man!.
le foto, dall'alto:
- Fabrizio Poggi sulla tomba di Rice Miller, Sonny Boy Williamson II a Tutwiler,
Mississippi.
- ”King Biscuit Time” KFFA Radio Station, Helena, Arkansas. Da sinistra: Sonny
Payne, Fabrizio Poggi, Francesco Garolfi e Bob “Mississippi Spoonman” Rowell.
- Walnut Street Blues Bar – Greenville, Mississippi
- Fabrizio Poggi, Steve LaVere, Francesco Garolfi al Blue Parrot di Greenwood,
Mississippi
- Fabrizio Poggi davanti al Delta Wholesale Hardware Co. a Clarksdale,
Mississippi, l’edificio che compare sulla copertina del cd di Charlie
Musselwhite “Delta Hardware”.
Alla scoperta del Mississippi
di Amedeo Zittano
Una storia di italiani che si intreccia con il
Blues.
Gli storici identificano il luogo in cui il Blues
cominciò ad assumere una struttura musicale riconoscibile nella seconda metà del
XIX secolo, in un’area pianeggiante chiamata “zona del cotone” o “Cotton Belt”.
Detto luogo si trova nel Delta del Mississippi (da non confondere con il delta
geologico
del fiume Mississippi ove sorge New Orleans), un lembo di terra a forma di “delta” appartenente allo Stato del Mississippi, tra il fiume
omonimo, il suo affluente Yazoo e le attuali città di Memphis e Vicksburg.
Quello che pochi sanno è che la presenza italiana ha contribuito in maniera
decisiva anche alla scoperta del fiume Mississippi, attribuita a René
Robert de La Salle ed al suo grande amico Henri De Tonti. Quest'ultimo si
riteneva fosse francese ma le ricerche condotte dallo studioso Pimpinella
Filippo nel 1910, e le più recenti di Pietro Vitelli, dimostrano che De Tonti
era nato a Gaeta intorno al 1650 ed il suo nome era Enrico Tonti. La sua
famiglia si trasferì in Francia per via di un complotto contro il viceré
spagnolo di Napoli (la famosa rivolta di Masaniello) in cui il padre Lorenzo,
banchiere e governatore di Gaeta, era coinvolto insieme al cugino Agostino di Lietto. In Francia
poterono contare sull'appoggio del Cardinale Mazarino. Nel Regno del Sole,
Lorenzo Tonti ideò un sistema finanziario per il quale fu nominato Barone di Paludy. Purtroppo, il sistema finanziario fallì e Lorenzo fu imprigionato nella
Bastiglia.
Enrico, giovanissimo, si arruolò nella Marina Francese. Fece una gloriosa
carriera distinguendosi per le sue doti militari e per l’estremo coraggio, tanto
da essere promosso sul campo, durante le operazioni militari in Sicilia, al grado di
Capitano in Seconda per aver difeso il porto di Messina.
In quell’occasione perse la mano destra (da cui il soprannome “mano di ferro” o
“braccio di ferro”, poichè si fece montare una protesi in metallo) e fu fatto
prigioniero per sei mesi a Milazzo. In seguito a rocamboleschi episodi, degni dei
più avventurosi romanzi, riuscì a tornare in Francia dove chiese di partecipare
all’espansione delle colonie della Nuova Francia. Partì per il Quebec dove fu
affiancato al Cavaliere De La Salle con il quale strinse una profonda amicizia.
Insieme esplorarono per la prima volta il Niagara, i Grandi Laghi e molti altri
territori. Furono considerati i padri fondatori dell'Arkansas, dell'Alabama e
dell'Illinois dove sorge una città con il suo nome, Tonti Town. Enrico divenne
ben presto famoso tra le tribù indiane che, per via della sua protesi, gli
attribuivano poteri magici, soprattutto tra le tribù bellicose degli Irochesi
alleate agli anglosassoni. L’esplorazione più importante però fu la discesa, nel
1682, del fiume Mississippi fino alla sua foce nel Golfo del Messico durante la
quale colonizzò le terre circostanti, compreso il Delta del Mississippi. Quattro
anni dopo ottenne la Signoria dell’Arkansas ed organizzò una cittadina, Arkansas
Post, insieme al fratello Alfonso Tonti ed al cugino Pierre-Charles De Lietto, che
si occupavano degli aspetti commerciali con i nativi Illinois. La costruzione di
nuovi quartieri diede vita ad una colonia che avrebbe dovuto ospitare le famiglie dell'esercito composto da soldati francesi, italiani e fiamminghi. Questo evento
rappresentò la prima emigrazione di Italiani nel Nuovo Mondo, proprio in una
delle colonie più fiorenti, basata sull’agricoltura, tanto che Arkansas Post
divenne la Capitale dello Stato. Nel 1689 Enrico venne a sapere della notizia
che La Salle, partito dalla Francia cinque anni prima con la missione di
costruire un nuovo porto sulla foce del Mississippi, era probabilmente morto.
Partì subito per una spedizione di ricerca senza sapere che l’amico era morto,
in realtà, due anni prima.
Alfonso De
Tonti, assieme al Governatore Cadillac, fondò nel 1701 una strategica fortezza che
chiamò Detroit. La dinastia delle famiglie De Tonti e Di Lietto resero onore ai
propri avi per generazioni, non solo per aver fortemente contribuito ad un
secolo di grande espansione della Nuova Francia ma soprattutto per aver
dimostrato un rispetto esemplare nei confronti delle popolazioni indigene
stringendo legami di grande amicizia (Enrico sposò nel 1700 una nativa
dell'Illinois) e per aver compreso pienamente la loro cultura, dimostrando così
che non necessariamente l’incontro tra due culture così diverse debba finire con
l’annientamento di quella più debole.
La storia di quei luoghi è particolarmente ricca di
riferimenti incrociati tra loro: gli afroamericani, gli italiani ed il Delta del
Mississippi.
Dopo la terribile guerra di Secessione che vide scontrarsi milioni di soldati e volontari, il Sud
fu dilaniato dalla fame. Questa tragedia generò una massiccia
immigrazione verso Kansas City, St. Louis e Chicago da parte degli
“ex schiavi” che dovettero però
adattarsi alla vita metropolitana densa dei disagi
dovuti ai pregiudizi razziali ed al sovrappopolamento. La restaurazione non si
fece attendere e nel giro di pochi mesi gli imprenditori diedero inizio a grandi
opere in quelle immense aree agricole. Nel 1880 i primi italiani nel Delta
furono impiegati a lavorare sulle rive di Friars Point, nella contea di Coahoma;
nel 1887 il banchiere newyorkese Austin Corbin, prelevò la Sunny Side Company
con l’obbiettivo di recuperare 10.000 acri di piantagioni di cotone tra il lago Chicot e
il fiume Mississippi. Corbin, già proprietario della ferrovia di Long Island,
fece costruire una nuova linea dedicata al trasporto dai magazzini
fino all’attracco delle navi per Greenville, il più importante centro
commerciale del cotone. La richiesta di manodopera cresceva con
l’aumentare delle aree agricole ripristinate. Corbin contattò quindi
l’Ambasciatore italiano a Washington Saverio Fava e il Capo dell’Ufficio Del
Lavoro Alessandro Oldrini proponendo loro di far immigrare nel Delta quante più
famiglie italiane possibili. Fu coinvolto anche il Sindaco di Roma Emanuele Ruspoli che doveva provvedere a far partire cento famiglie all’anno per cinque
anni. Il 29 novembre
del 1895 la Motonave Chateau Yquem sbarcò a New Orleans 98 famiglie composte da 562
persone, la maggior parte delle quali provenivano dalle proprietà terriere di Senigaglia del Sindaco Ruspoli. Queste famiglie furono spinte,
con il miraggio del "sogno americano", a vendere tutti i loro averi per pagarsi il viaggio. A chi non
aveva disponibilità economica, i proprietari terrieri anticipavano le spese. Nel
giro di pochi anni centinaia di famiglie italiane accettarono di lavorare in
tutto il Delta indebitandosi con le Compagnie che operavano ormai una sorta di
racket legalizzato, lucrando anche sulle spese più impensabili come l’ingaggio
della manodopera afroamericana, il mantenimento dei muli, le spese di
imballaggio e trasporto del raccolto, nonché sul prezzo dei semi del cotone. I
debiti degli italiani aumentavano e con il passare del tempo la morsa si fece
sempre più stretta rendendoli praticamente schiavi delle Compagnie e della Legge
americana che, ignorando il 14° emendamento della Costituzione, applicava agli
italiani lo stesso trattamento riservato ai neri. Chi tentava la
fuga veniva accusato di reato Federale di "peonage", ovvero una sorta
di larvata schiavitù.
Non erano rari gli episodi di linciaggio (legge di Lynch), famoso quello di New
Orleans nel 1891 nel quale furono uccisi undici italiani. Le denunce alle
Ambasciate italiane aumentavano in modo esponenziale; persino il nuovo
Ambasciatore Edmondo Mayor Des Planches avendo constatato la realtà durante un viaggio
nel Sud degli States, denunciò al Governo americano il fenomeno del peonage e le
cattive condizioni di vita degli italiani nelle piantagioni del Sud. Nel 1907,
il procuratore generale Mary Grace Quackenbos aprì la prima inchiesta.
L’integrazione italiana cominciò ad essere
concretamente accettata solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie ai tantissimi italiani
che si arruolarono nell’esercito degli Stati Uniti d’America, un po’ come
era accaduto ai neri durante la guerra di Secessione, quasi un secolo prima.
Murales Blues
Il Blues, come sappiamo, non è solo musica; il
Blues è soprattutto pensiero, quindi cultura. A tutti i musicisti italiani che
abbiamo intervistato abbiamo fatto la stessa domanda: “che cosa è il Blues per
te?”… A dire il vero, la domanda può apparire un po’ sciocca, sicuramente
banale, ma è stato molto interessante scoprire come una domanda “provocatoria”
abbia generato risposte sempre diverse tra loro. Per qualcuno il Blues è un
atteggiamento mentale, per qualcun’altro è una donna che non rivedrà più, per
qualcun altro ancora è un urlo dell’anima, il sacrificio, il rispetto, la
cultura… insomma, il Blues è tutto questo intreccio e molto altro ancora. Molti
artisti, oltre che essere blues in senso musicale, lo sono anche in senso
letterario, fotografico, cinematografico e artistico in generale. Navigando nel
web capita persino di vedere l’arte dei murales legata al blues. Ci siamo chiesti
se anche in Italia si esprima questa bellissima forma di arte. Da qui la
decisione di lanciare un appello a tutti coloro che hanno visto e fotografato un murales blues.
A tal proposito ci piacerebbe se inviaste delle foto con il luogo, l’oggetto e, se
possibile, l’autore del murale, noi saremo lieti di pubblicarle.
Nel frattempo vi offriamo un piccolo assaggio dei murales realizzati oltreoceano nei
luoghi più significativi del Blues americano:
In onore del grande Jimmy Reed che è nato a
Dunleith, ad est di Leland. Realizzato da Cristen Craven Barnard e Jay
Kirgis nel 2001. Questo murale si trova sul muro del Stovall's on the Creek |
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Questo murale è realizzato accanto ad una
porta sul retro di un negozio alimentare. Raffigura W.C. Handy durante il
suo primo incontro con un bluesman nella stazione ferroviaria di Tutweiler,
Mississippi, nel 1903. |
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Realizzato dalla Blues and R&B Music
Foundation di San
Francisco, sul muro della
Palestra Sport Hamilton, rappresenta l'unità e gli sforzi tutti di coloro
che hanno lavorato duro donando alle generazioni future un grande bagaglio
culturale. |
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Raffigurazione della vita
di Sonny Boy Williamson II, che riposa in pace in un cimitero abbandonato
alla periferia
di Tutweiler, Mississippi. |
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B.B. King, Indianola, Mississippi |
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Murale raffigurante Robert Lockwood realizzato
da Tony Davenport. Sito nell’Official Robert Johnson Blues Museum. |
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Helena, Arkansas:"Sonny Boy Blues Society"
nella Cherry Street |
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Brownsville, Tennessee: Sleepy John Estes,
Hammie
Nixon e Yank Rachell. |
Robert Johnson - I Got The Blues, Testi Commentati
Luigi Monge, Arcana 2008
di Amedeo Zittano
Di
libri su Johnson ne sono stati scritti a iosa ed è per questo che una domanda
nasce spontanea: “perché mai dovrei acquistarne un altro ancora?” La risposta
sta nel fatto che Luigi va ben oltre quello che ormai è diventato luogo di
pensiero comune dello stereotipo del bluesman anni ’30 che Johnson rappresenta.
Intorno al personaggio è stato cucito di tutto, dal mistico al
surreale, forse perché l’animo umano è per natura attratto dal paranormale, più
probabilmente perché le case discografiche hanno sfruttato il mito a scopo di
lucro nel riproporre le sue opere negli anni ’60 della blues revue (quando, dopo
oltre vent’anni di quasi anonimato, furono ristampati i brani di Johnson). In
ogni caso, quasi mai è stata fatta un’analisi oggettiva dell’uomo Robert Johnson.
Questa scelta potrebbe far “storcere il naso” a qualcuno deludendo
inevitabilmente chi si aspetta le stazionarie, obsolete, ma pur sempre
affascinanti conclusioni “sataniche”. In fondo tutti dovremmo sapere che
l’incrocio (il celebre crossroads) di Johnson e della cultura afroamericana che
egli rappresenta, simboleggia in verità una croce, ovvero una scelta o
decisione. Non necessariamente la condizione di Papa Legba “demone” con cui
stringere un patto ha attinenza con il satanico. Più verosimilmente, riferimenti
metaforici del genere rappresentano una scelta di vita pattuita con se stessi. Una scelta
decisamente "coraggiosa" quella di Luigi Monge “il revisionista”, il contrapporre alle aspettative commerciali una precisa strategia culturale
rispettosa della verità, per l’appunto: “I Got The Blues”.
Dopo un’attenta lettura ho potuto apprezzare una serie di aspetti innovativi
rispetto a tutto quello che ho letto da molti anni a questa parte. La forma con cui
vengono esposti i contenuti è tutt’altro che “arzigogolata” (al contrario di
molti vanagloriosi studiosi dei analogo spessore), rendendo il testo
comprensibile davvero a tutti. Attenta è l'analisi che, pur proponendo
conclusioni opinabili, non dà nulla per scontato. Interessantissimi, in
particolare, i riferimenti storici. Ma l’aspetto più interessante è
l’interpretazione del testo e del contesto lirico che Luigi traduce e commenta: un invito alla riflessione basata sulla ricerca delle vere
intenzioni dialettiche e dei significati nascosti che Robert dona con le sue
canzoni. A garanzia di ciò, c'è l’indiscussa competenza internazionale dell’autore
in fatto di linguaggio americano, soprattutto di quello legato alla società nera del
Delta dei primi del ‘900, il “black american” e il suo “double talk”.
Luigi è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l'Università
di Genova con una tesi intitolata "La lingua inglese dei Neri d'America e il
Blues: analisi critica di alcuni testi"; è insegnante e traduttore, membro
dell'Associazione Italiana Traduttori e Interpreti dal 1993; socio fondatore
dell'Associazione Culturale Liguria Blues Genova; ha scritto per le riviste più
autorevoli di cultura blues italiane ed estere, tra cui il “Black Music Research
Journal”, la University of Illinois Press, la Routledge di New York e “Il Blues”
di Marino Grandi.
Questo libro è un ottimo supporto culturale anche per tutti coloro che coltivano
la passione del Blues come musicisti, in particolare per quelli legati al canto.
A mio parere ogni cantante di blues dovrebbe leggere e comprendere quest’opera
che magistralmente restituisce significato alle liriche di Johnson e del Country
Blues più in generale; d'altronde si sa che le lacune culturali sono spesso la
causa principale di un’esecuzione musicale maccheronica ed empatica.
Tempo fa ho letto da qualche parte che Johnson è stato ucciso due volte: nel ’38
quando fu avvelenato e dopo il ’61 quando fu interpretato…
Il libro è in vendita anche sul web: basta cercare il titolo e l’autore ed una
serie di webmarket (compreso ebay) evidenzieranno il prodotto.
Un ultimo suggerimento: durante la lettura ascoltate in sottofondo i brani di
Johnson.
“Ho un uccello per cantare e un uccello per fischiare e tu, amico, non pescare
nel mio stagno”. (R.J.)
I Will, Chicago
di Amedeo Zittano
Chicagoland è distesa su un’area pianeggiante estesa per più di 50 Km lungo la
costa sud occidentale del lago Michigan a circa la stessa latitudine di Roma. E’
capoluogo della Contea di Cook e rappresenta la terza città degli Stati Uniti
d’America; è la più grande città del Midwest; ha il più
trafficato nodo
ferroviario al mondo; la Camera di Commercio tratta il 90% dei contratti di
grano e cereali della nazione; i Mercati Generali sono i primi degli Stati Uniti
per i prodotti agricoli; vanta il grattacielo più alto d'America, la Sears Tower
(fino a pochi anni fa il più alto al mondo); ha l’edificio più grande al mondo,
il Merchandise Mart; è la città con il maggior numero di ponti mobili al mondo;
ha l’aereoporto più congestionato al mondo; è la città più produttiva di acciaio
d’oltreoceano; è la prima al mondo nelle vendite per corrispondenza (Postal
Market); è la più giovane degli States; vanta la squadra NBA più forte, i
“Chicago Bulls”; è l’unico dei 38 Stati su 52, a rispettare la Moratoria ONU
delle esecuzioni del 2000; è sede di “Play Boy”; è gemellata dal 1973 con
Milano; è la più ambiziosa; la più audace; la più vanagloriosa; la più
americana; la più Blues!
L’etimologia della parola Chicago trova origine nel linguaggio dei nativi
americani che si insediarono in quei luoghi circa 10.000 anni orsono, nel
periodo della colonizzazione della Louisiana Francese da parte di La Salle (vedi articolo “Alla scoperta del Mississippi”). In quei territori
vivevano prevalentemente pellerossa Potawatomi (ma anche Miami e Illinois) che
chiamavano il fiume “Shikaakwa” da cui la città che sorse alla sua foce prese il
nome. La parola ha fondamentalmente due interpretazioni: la prima, quella più
accreditata, si riferisce alla caratteristica vegetale del paludoso luogo
infestato da una specie di porri selvatici che i nativi chiamavano appunto “Shikaakwa”;
la seconda, invece, attribuisce alla parola il significato di “potente”, con
riferimento alle tribù che ci abitavano.
Chicago è stata conosciuta nel corso della sua storia con vari soprannomi a
causa dell’insopportabile odore delle paludi circostanti e dei porri selvatici;
uno di questi era infatti “puzzolente”. Il nomignolo più famoso è "Windy City"
(città ventosa o bombast) poichè gli alti grattacieli creano fenomeni di forti
turbolenze aeree lungo le strade sottostanti deviando il gelido vento Canadese
verso il basso. Questo termine in realtà non è altro che un doppio senso
puramente satirico. Bisogna premettere che il termine “Windy” (in senso
dispregiativo) fu utilizzato per la prima volta nel 1858 in un articolo che si
riferiva però a Green Bay, Wisconsin. A parer di cronaca, gli abitanti si
vantavano così tanto da produrre vento con la bocca, come dire “palloni
gonfiati”. L'appellativo Windy City riferito a Chicago è un conio della rivale
Cincinnati, Ohio. Furono principalmente loro a far si che, in seguito, il nomignolo Windy fosse attribuito ai chicagoans, fossero essi cittadini, politici, artisti
o atleti. Il termine si diffuse così tanto che nel 1890 il New York Sun di
Charles A. Dana pubblicò un articolo in cui si dichiarava che la "Windy City",
una città di frontiera, non poteva ospitare il “World's Fair” (esposizione
mondiale colombiana) conteso anche dalla
città di New York, pur avendola
sconfitta con ben otto scrutini. Alla base della vittoria di Chicago, però,
fecero leva le eloquenti promesse dei politici, definiti "talkative"
(chiacchieroni) o "boast full", quindi “Windy”. Per tutta risposta i chicagoans
trasformarono “Windy" in “Fight” (lotta).
Altri appellativi furono: "Porkopolis", “White City”; The Hawk; “Second City”
(perché in passato era la seconda città più grande degli States dopo New York);
“City of Big Shoulders”; "Dat Killa Chi" (usato dai gangster ai quali purtroppo
erano associati anche gli italiani); "The Chill” o “Chi Ill"; "The Big Onion"
(la grande cipolla); “Chi-Town” o “Chitown”; "Hog Butcher For The World”; “Tool
Maker”; “Stacker Of Wheat”; “Stormy”; “Husky”; “Brawling”; "Shot-Town"; "Heart
of America"; “The Alley” e, dulcis in fundo, "Sweet Home" in riferimento alla
celeberrima canzone di Robert Johnson del 1937.
L’insediamento urbano di Chicago nacque intorno al centro commerciale di Jean
Baptiste Pointe Du Sable (personaggio di colore riconosciuto nel 1986 “il padre
di Chicago” perchè fu il primo non nativo a costruire un edificio stabile alla
foce del fiume Chicago) ed era nota con il nome di Fort Dearborn, costruito nel
1803 a difesa dello strategico territorio. Il 12 agosto del 1833 fu dichiarata
la municipalità della città di Chicago. Essa contava, in un’area di 1 Km², circa
350 abitanti (oggi ne conta quasi 3 milioni nel Comune e quasi 10 milioni nella
Chicagoland) e la sua crescita era esponenziale.
Nel 1871 la città fu completamente distrutta dal Grande Incendio. Per ironia
della sorte, o per vendetta della natura, quella che rappresentava la macelleria
degli States, dove “le mucche andavano a morire”, fu incendiata proprio per via
di una mucca che scalciò una lanterna a petrolio incautamente dimenticata nella
stalla delle sorelle O'Leary; il vento, poi, fece il resto (questa versione però
fu in seguito smentita). Fu dalle ceneri di quell’incendio che nacque la Second
City che da subito volle stupire il mondo… Non volendo più costruire edifici in
legno, si pensò di utilizzare l’acciaio grazie al quale si riuscì a sfruttare
l’altezza arrivando a realizzare il primo grattacielo della storia, l'Home
Insurance Building (demolito nel 1931). Furono riprogettate le strade diritte e
perpendicolari tra loro (infatti le poche strade diagonali sono quelle dei
vecchi sentieri indiani); nacque la Dowtown (il centro città); furono costruiti
innumerevoli parchi lungo le sponde del lago e cominciò a prendere forma il
Magnifico Miglio. Da questa forte rinascita economica, sociale ed industriale,
ci fu spazio anche per un primato ecologico (oltre che di viabilità
commerciale). Per combattere l’inquinamento fu addirittura invertito il corso
del fiume Chicago grazie alla costruzione di un canale che lo collegò al fiume
Illinois.
La Guerra di Secessione fece aumentare l’offerta di risorse e per Chicago fu un
vero boom. Ne seguirono l’utilizzo del ghiaccio nei mattatoi (che permetteva di
non sospendere le attività nei mesi estivi), l’inscatolamento della carne e la
catena di montaggio. Chicago rappresentò il primo esempio di Industria Globale
che durò fino agli anni ’70 dopo i quali, a seguito di una crisi industriale,
anziché crollare su se stessa, trovò una via di scampo inventando l’Economia dei
Servizi, anticipando successivamente l’applicazione e lo sviluppo
dell’informatica.
Per quanto riguarda l’influenza italiana basti pensare che, intorno al 1920,
Chicago ospitava la popolazione italiana più numerosa (insieme a quella
nera).
Purtroppo la presenza italiana diventò popolare per i gravi problemi che la
mafia arrecò alla cittadinanza, causando un’ondata xenofoba che generò misure
straordinarie di anti-immigrazione italiana. I pochi fortunati che riuscirono a
realizzare una qualche modesta attività furono subito aggrediti dalle
organizzazioni xenofobe. Gli italiani erano esclusi da tutto, anche dai
sindacati. Ne costituirono di propri come la “Società degli Stuccatori e
Decoratori Italiani” o associazioni come “Donne Piemontesi”. Questa situazione
aumentò la necessità di raggrupparsi per difendersi, così sorsero borgate dette
“Little Italy” o più specifiche come “Little Sicily”, nota anche come “Little
Hell”. In contrapposizione a queste tendenze le varie parrocchie come quelle
delle chiese di S. Angelo, della Madonna di Pompei o Dell’Addolorata, cercarono
di contrastare i fenomeni malavitosi creando aggregazione in società
mutualistiche e di volontariato. L’opinione pubblica però non ha mai fatto
distinzioni tra buoni e cattivi. Little Italy diventò terreno fertile per le
varie forme di mafia e camorra che resero la città un vero inferno
caratterizzato da episodi sanguinari come la tristemente famosa strage di S.
Valentino. Little Italy, per via di nuovi progetti di urbanizzazione, venne rasa
al suolo. A differenza delle Little Italy di tutto il mondo che si distinguono
per lo stile palesemente italiano, colorato e allegro, mella nuova Little Italy
di Chicago non è visibile alcunché di italiano. Chi c’è stato lo descrive come
un posto piuttosto povero e decadente. Inoltre, a contribuire alla “brava”
reputazione degli italiani, il cinema ha ripetutamente narrato ed enfatizzato (a
mio parere in modo eccessivo) personaggi come l’italo-napoletano Scarface, alias
Alfonzo Capone, o «Big Jim» Colosimo, creando uno stereotipo fortemente
negativo. A noi piace ricordare personaggi più illustri come “The italian
navigator”, Enrico Fermi, che dopo aver ricevuto il premio Nobel nel 1938 da re
Gustavo V a Stoccolma, a causa delle leggi razziali (la moglie Laura Capon era
ebrea), dovette partire con la famiglia per gli Stati Uniti ed a Chicago visse
gli ultimi quindici anni della sua incredibile vita.
Nei primi anni del XX secolo accadde quello che fu definito il fenomeno che ha
dato vita alla nascita del Chicago Blues: la massiccia immigrazione (come accade
qualche decennio prima a causa della Guerra di Secessione), di neri dagli Stati
del Sud, in particolare dal Mississippi, che si
trasferirono a Chicago alla
ricerca di una vita migliore. Fu così che il Country Blues conobbe la grande
metropoli, la Dowtown stretta nel suo Loop (una linea ferroviaria sopraelevata
della metrò leggera che la circonda, intesa come “il Cappio”). Prese forma uno
stile musicale caratterizzato principalmente dall’elettrificazione degli
strumenti e da una lirica metropolitana. Il Blues era la musica dei “festini” (Rent
Party) dove l’alienamento sociale dei neri trovava sfogo in una sorta di Juke
Joint di città. Nacquero grandi talenti che segnarono con i loro stili un
percorso indelebile nella storia del Blues: Muddy Waters, Buddy Guy, Howlin'
Wolf, Big Bill Broonzy, Sunnyland Slim, Jimmy Yancey, Meade "Lux" Lewis, Albert
Ammons, Blind John Davis, Otis Spann, Sonny Boy Williamson I, Sonny Boy
Williamson II e Little Walter, solo per citarne alcuni.
Insomma, chiunque ami il blues vorrebbe visitare Chicago almeno una volta nella
vita e, se già lo ha fatto, vorrebbe tornarci ad ogni costo.
Bisogna dire che musicalmente Chicago non è fatta solo di Blues, anzi! Dagli
anni ’50 (a parte una “timida” revue dei ’60 e l’avventura cinematografica Blues
Brothers, divenuta la mania degli ‘80) il Blues di Chicago conta più o meno
sugli stessi personaggi che con il passare del tempo, e per volere del Grande
Spirito, saranno destinati a lasciarci. Per i conservatori della cultura blues,
il vero Blues è quello che “va dagli anni ’20 ai ’40, massimo ai ‘50”. La
verità, certo, non si trova mai negli estremi, tuttavia bisogna ammettere che
attualmente la progressista Chicago vanta molte altre cose oltre il Blues. La
città è un importantissimo centro di riferimento Jazzistico ed è stata la culla
della House Music (prima forma musicale dalla quale nascono tutte le forme di
musica elettronica contemporanea). Ovviamente essendo per definizione la patria
del Blues Elettrico, essa offre una infinità di luoghi culturali anche se è un
peccato che, per volontà del progresso ed a causa della ruffiana indifferenza
nei confronti della speculazione edilizia, alcuni dei luoghi cult non esistano
più. A nulla sono valsi gli scioperi della fame di Jimmie Lee Robinson
(scomparso nel 2002) per protestare contro la chiusura (avvenuta nel 1994) del
grande mercato ebraico di Maxwell Street (ghetto del West Side immortalato
nell’album del 1964 “Live On Maxwell Street” di Robert Nighthawk).
Si potrebbe tranquillamente affermare che la Sweet Home è una sorta di Città
Museo del Blues. Questo aspetto lega strettamente il fenomeno culturale al
fenomeno commerciale del turismo e quindi troppo spesso il Blues diventa
strumento di intrattenimento folkloristico per i visitatori di tutto il mondo
che affollano la metropoli. Tutto è associato al Blues, dai nomi dei ponti alle
grafiche delle bustine di zucchero; per le strade, nei
negozi e anche nei più
piccoli bar di periferia, il Blues viene eseguito in modo sterilizzato e
logorroico. La fama, si sa, è una lama a doppio taglio e, se i benefici
commerciali superano di gran lunga quelli culturali, il rischio di atrofizzare
il Blues di Chicago è davvero preoccupante. In ogni modo, Chicago è una città da
visitare nella maniera più assoluta anche perché a mantenere alta la dignità del
Chicago Blues ci pensano i più famosi club come il Lee’s Unleaded Blues, (ex The
Queen Bee), il Buddy Guy Legend's, il Blue Chicago, il B.L.U.E.S., il Kingstone
Mines, etc. Tra questi ce n’è uno gestito da Italiani: il Rosa’s Lounge di Tony
Mangiullo e mamma Rosa.
La storia del Rosa’s ha il dolce sapore di una fiaba d’altri tempi e comincia
nel 1978 quando Tony (di Rho-Milano), batterista dei Mean Mistreater, e
Giancarlo Crea accompagnavano per i loro tour italiani bluesman del calibro di
Homesick James, Buddy Guy e Junior Wells. Di li a poco Tony decise di
trasferirsi a Chicago spronato anche dall’incontro dei sopracitati bluesman e
dal fatto che Giancarlo conosceva già la città. Mamma Rosa, che mai avrebbe
potuto accettare la lontananza del figlio, decise di seguirlo. Vendette la casa,
la bottega ortofrutticola e lo raggiunse. Li si innamorò di Homesick James e lo
sposò. Ma Tony svolgeva una vita notturna troppo preoccupante per lei; i
giornali erano sempre più infarciti di articoli che descrivevano numerosi
incidenti stradali durante le notti brave di Chicago. Per un periodo Tony, per
non dare preoccupazioni alla madre, percorreva numerosi chilometri a piedi pur
di raggiungere i locali in cui suonava, ma non bastò. Mamma Rosa sapeva
benissimo che camminare di notte tra i quartieri di Chicago poteva essere anche
più pericoloso che percorrerla in auto, così decise di rischiare il tutto per
tutto investendo tutti i suoi risparmi in una casa nel West Side per
trasformarla in un locale… Dopo sei anni dal loro trasferimento negli States, al
3420 W. Armitage Ave., naque il “Rosa’s Lounge, live blues 7 nites”, uno dei
pochi locali che si distingue ancor oggi per volontà di tenere vivo il Blues a
Chicago.
P.S.
“I Will” è il motto ufficiale di Chicago e vuol dire “Ce La Farò”…
Phil Guy, Addio blues brother
di Dario Lombardo
Nasce a Lettworth, Louisiana, il 28 aprile del 1940, quinto di 5 fratelli (Annie
Mae, Fannie Mae, George, Sam & Phil). Il padre, Sam senior, suona la chitarra e
possiede dei dischi. E' un contadino che lavora a mezzadria un pezzo di terra ed i figli lo aiutano.
George inizia a suonare e dopo poco anche Phil lo segue in questa direzione
(nel recente cofanetto CD di Buddy ci sono alcune registrazioni dei due Blues Brothers degli anni '50).
Nel '58 George va a Chicago e Phil resta in Louisiana. In poco tempo suona con
Raful Neal, Slim Harpo, Lazy Lester. Durante gli anni '60 ha un lavoro regolare
cui affianca il ruolo di session man nei locali della zona. In questo modo suona
con molti musicisti di passaggio, tra cui Otis Redding.
Phil è un musicista fin dall' inizio legato alla tradizione ma aperto ai nuovi
suoni e stili dei '60's: sarà questa una costante della sua musica, che lo
porterà ad inserire nei suoi spettacoli brani o sapori funk, rhythm'n'blues, rap, oppure ad essere tra i primi chitarristi blues ad usare effetti con lo
strumento.
Nel '69 la svolta: Buddy Guy resta senza chitarrista alla vigilia di un
importante tour in Africa con Junior Wells, e propone al fratello di unirsi alla
band. Detto e fatto, questo è il momento che cambia la vita di Phil. Lascia
lavoro e famiglia e si trasferisce a Chicago, dove resterà a vivere al ritorno
dall'Africa. E' la Chicago del 1969, quella del Blues sì, ma piena del Funk che
esplode come musica e come cultura, moda, stile di vita. E' il momento del Black
Power, la Soul Music sta cambiando abito. Basta vedere le foto dell' epoca per
capire quanto tutto questo entri di prepotenza
nella vita di Phil Guy. Ed infatti, è proprio un segno fondamentale di quel
periodo, The Wig, la parruccona Afro simbolo di affermazione e libertà che Phil
non lascerà più e che continuerà orgogliosamente ad indossare fino alla fine.
Musicalmente, a Chicago nel '69 ci sono ancora Jimmy Reed, Eddie Taylor, gli
Aces, insomma quasi tutta la generazione che ha fatto il sound storico della
città, e ci sono i locali (quei clubs storici che ormai sono tutti chiusi), primo
fra tutti quel Theresa' s che sarà la “tana” di Junior Wells, come è ben
testimoniato dal recente Live della Delmark, che vede proprio Phil alla
chitarra. Ed esce allo scoperto in quel momento la nuova generazione, quella dei
Lonnie Brooks, Mighty Joe Young, e si afferma definitivamente il successo di
Otis Rush, Magic Sam, Buddy Guy & Junior Wells. Blues, Soul, Rock, si miscelano
creando un
nuovo suono che estenderà ovunque i confini della popolarità di
questi generi. Phil è in mezzo a questo fiume: suonando col fratello e con
Junior Wells per dieci anni, fino al '79 sarà esattamente nel cuore di tutto
questo. Dopo il tour in Africa sarà la volta del Rock' n' Roll Train, quel breve
tour in cui una
serie di gruppi furono portati dagli Stati Uniti al Canada per via ferroviaria:
viaggiavano notte e giorno, poi alla sera suonavano dove si erano fermati.
I gruppi? Buddy Guy, Janis Joplin, Grateful Dead, ecc. (Phil diceva che c'erano anche i Jefferson Airplane ed i Mountain, ma nel film, uscito da pochi
anni, non ci sono). Nel 1970 c'è il tour europeo con gli Stones nel corso
del quale, il 29 settembre ed il 1° ottobre, Phil suona per la prima volta in
Italia, al Palasport di Roma. (Byll Wyman, “Rolling With The Stones”).
Gli anni '70 scorrono così, con i primi brani di Phil che escono “in coda” ai
dischi su JSP del fratello, ed il cuore della Chicago Blues si è spostato al Checkerboard Lounge.
Nel ' 79 Phil decide di lasciare la band del fratello e fonda la Chicago Machine,
il gruppo con cui si esibirà fino al 2008. Nella band, fin dall' inizio, si
avvicendano molti giovani futuri talenti, come Ray Allison, Maurice John Vaughn,
J.W. Williams. Il tastierista Eddie Lusk è l'anima del gruppo. Sono di quegli anni
le collaborazioni con Jimmy Dawkins ed A.C. Reed, purtroppo solo parzialmente
testimoniate su disco, e poi finalmente i primi dischi a nome di Phil, che
escono sempre per la britannica JSP.
Anche se Phil registrerà per altre etichette (o se altre etichette
pubblicheranno senza autorizzazione suoi dischi...), sarà proprio la JSP l'etichetta cardine della sua discografia, cui bisognerà aggiungere, dal 1989 in
poi, i lavori con gruppi non americani che chiaramente hanno inciso per etichette
locali.
Phil Guy è sempre stata una persona di ampie vedute e di mentalità aperta, alla
costante ricerca di progressi e cambiamenti: fin dall'inizio la sua band è stata una
specie di palestra in cui i musicisti si sono alternati per poi passare ad altre
esperienze senza scordare, nella maggior parte dei casi, il proprio punto di
partenza. Questa sua apertura mentale si è dimostrata ancor di più nella
disponibilità ad esibirsi con gruppi non americani. Cominciò con gli inglesi nei
primi anni '80 e poi nell' 87 fu la nostra volta: Model T Boogie il nome della
band, ricordate? E se possibile erano collaborazioni
destinate a durare nel
tempo. Se decisamente la più duratura è stata quella con me, non bisogna
scordare altre importanti parti di questa avventura (due principalmente), cioè
quella Argentina (con il batterista Adrian Flores e l'armonicista Alex Rossi),
e quella Finlandese (con la Wentus Blues Band e Pepe Ahlqvist).
Queste collaborazioni hanno portato, oltre che ad una lunga serie di concerti, a
cinque dischi che a pieno diritto possono essere inseriti nella discografia di
Phil: Model T Boogie, 1989; Adrian Flores y Blues Especial, 1997; Blues Gang,
1999; Wentus Blues Band, 2002; Alex Rossi, 2006 (nota: in realtà i dischi in
cui Phil è presente sempre sono tre, ovvero, oltre al mio, quelli di Adrian
Flores e della Wentus. Negli altri due, Model T e Alex Rossi, suona solo alcuni
brani). Non sono da dimenticare le collaborazioni con il chitarrista anglo –
americano Colin John (nel suo disco “Groove Yard Devils” - 2002, sono presenti 6
brani interpretati da Phil, tra cui le imperdibili Undercover e Funky Booty, con
Phil as... “the Real Rapper”..!).
Tornando alla parte americana del suo lavoro, due sono state le persone
importanti di questa ultima fase: Bruce Feiner e Lisa Mallen. Bruce, musicista,
arrangiatore e produttore, ha curato gli ultimi due CD di Phil, Say What You Mean, JSP 1999, e He's
My Blues Brother, Black Eyed 2006 (anche quest' ultimo
CD avrebbe dovuto uscire per la JSP, ma in fase di post produzione si è
verificato il distacco tra Phil e Feiner che ha portato all'uscita del disco
per un' altra etichetta). Questi due dischi testimoniano ed approfondiscono il
lato della musicalità di Phil che già era stato evidenziato dai lavori con Model
T, Blues Gang e Colin John, e cioè quello funky soul. Sono dischi dal sapore
particolare, con canzoni originali che
Phil suonava anche dal vivo, come ad esempio la splendida ballata soul blues “Is
It Him Or Me?”, o le latineggianti "Lonesome Blues" e "Say What Tou Mean". Non
sono da dimenticare altri due brani: "Last Of The Blues Singers" (da Say What You
Mean) e "He's My Blues Brother" (dal cd omonimo). Sono queste due canzoni cui Phil
teneva enormemente (insieme a "Too Young To Die", da He's My Blues Brother",
dedicata al nipote ucciso in Louisiana da una gang). Se la prima è un po' la
canzone manifesto di Phil Guy, in cui rivendica il titolo di Last of the Blues
Singers perchè è rimasto l' unico a suonarlo in un mondo pieno di troppo hip hop
e rap (e non stupisca qui la contraddizione tra queste parole ed il fatto che
Phil fosse poi uno dei pochi bluesmen a rappare un poco durante i suoi concerti,
è un rapporto di amore/odio, forse, ma in realtà musicalmente e culturalmente
indissolubile...), la seconda è invece la canzone che vede i due fratelli
tornare insieme su disco per una traccia “familiare” che sottolinea il loro
essere the real Blues Brothers: alla luce dei fatti, un dolcissimo addio...
Lisa Mallen, infine: anima del lavoro di Phil di questi ultimi 4 anni. Lisa
stava riuscendo a fare emergere la sua figura al meglio con una precisa ed
attenta gestione della sua attività.
Phil era tornato ad esibirsi in tutti gli Stati Uniti, girando in quel circuito
di locali in cui il Blues è presente e che gli appassionati conoscono. Iowa,
Minnesota, California, Louisiana, oltre agli stati della costa Est. Erano tra le
mete ricorrenti di Phil in questi suoi ultimi anni. I Blues Festival tornavano a
chiamarlo, e le recensioni, gli articoli sulle riviste ponevano la luce sulla
sua musica e sulla sua storia. Tra i risultati più concreti del lavoro di Lisa
Mallen c'è la pubblicazione di He's My Blues Brother; la copertina e l'ampio
articolo su Phil pubblicato da Living Blues nel 2005; la proclamazione del 28
aprile 2005 (nella data del suo compleanno) del “Phil Guy's Day” da parte del
sindaco di Baton Rouge; ed infine la vittoria di due degli Chicago Music Awards
2007, quello di Best Blues Entertainer ed il Producer' s Award of Excellence.
Non sappiamo quindi fin dove si sarebbe potuto spingere il lavoro di Lisa Mallen
e di conseguenza la carriera di Phil Guy, ma questi segnali e risultati ci fanno
intuire che la possibilità di un reale balzo in avanti c'era e che era ad un
passo. Fatto testimoniato anche dalla partecipazione e dalla reale commozione
dell'intera comunità blues di Chicago alla scomparsa di Phil. Tutti i musicisti
che non erano in tour o impediti da malattia hanno
partecipato alle cerimonie funebri tenutesi tra il 25 ed il 26 di agosto alla Gatling's Chapel.
Nei locali molti concerti sono stati dedicati a Phil e
tanti hanno eseguito le sue canzoni.
Phil Guy è scomparso il 20 agosto alle 9.40 presso l'ospedale di St. James, Chicago Heights.
La sera del funerale, il 26 agosto, si è tenuta al Legends una jam session tenuta da
Carlos Johnson che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Ronnie Baker
Brooks, Big James Montgomery, Matthew Skoller, Snapper Mitchum. Martedì 30 settembre, sempre al Legends, nel corso di un
concerto speciale alla presenza di familiari ed amici, “Ludella”, la Telecaster
del '54 che è stata la chitarra di Phil praticamente da sempre, è stata inserita
tra gli altri leggendari strumenti appesi alle pareti del locale.
il lavoro comune:
Ho lavorato con Phil Guy per 21 anni, dal 1987 al 2008. E' stata un' occasione
unica perchè mi ha consentito di ottenere cose impensabili prima, di lavorare ed
imparare musicalmente da un protagonista fondamentale del Blues, ed infine di
vivere un'eccezionale avventura umana. In questi anni abbiamo suonato in mezza
Europa, i principali festivals italiani ci hanno visti come loro ospiti, ed
anche i clubs hanno spesso sentito la nostra musica. Non solo, sono anche stato
spesso ospite della Chicago Machine quando ero negli Stati Uniti, ed è stato
suonando con Phil nei clubs di Chicago che mi è capitato di dividere il palco
con Junior Wells, Buddy Guy, Carey Bell. Ed è stato Phil a farmi conoscere Dave
Myers, che fu con noi nella sua unica comparsa in Italia. E poi John Primer, che
sarà con la Blues Gang nel 2009 e la cantante Delores Scott, anche lei sul
palco con noi nel febbraio 2008 proprio per sostituire Phil già fermato dal male, che aspettiamo nuovamente a dicembre.
Phil è stato un collega, un maestro certo, ma anche e soprattutto un amico. Nel
vero senso del termine, non in quello buonista ed abusato di questi nostri
ultimi anni. E' difficile affrontare questa parte della vicenda senza retorica,
il rischio c'è ed è qualcosa che voglio evitare, non fa parte del mio modo di
essere. E' stata un'amicizia che è cresciuta e si è cementata lavorando insieme
e, non a caso, il nostro disco si è chiamato, appunto, Working Together.
Viaggiando, suonando, vivendo insieme nei giorni liberi. Ospiti l'uno dell'altro, nelle nostre case, andando a far la spesa o camminando per le
nostre città. Facendo lavori di casa, verniciando vecchie panche in cortile e
poi suonando un poco prima di cena.
E' ormai normale che musicisti italiani si trovino a lavorare con bluesmen
americani, il nostro blues sta crescendo e ottiene risultati e consensi. Non era
poi così normale vent'anni fa e mi si passi che se lo è diventato sia anche
merito di Phil e mio e di tutti quelli che sono stati parte di questa avventura
insieme a noi.
Ne ricordo alcuni, sperando di non scordarne nessuno...
Con Phil e me, hanno suonato:
Model T Boogie (1987 - 1989): Giancarlo Crea, armonica e voce; Nick Becattini,
chitarra e voce; Alberto Marsico, tastiere; Davide Dal Pozzolo, sax;
Renata Tosi, voce; Massimo Pavin, basso; Massimo Bertagna, batteria; Sergio Montaleni, chitarra e voce; “Lucky” Luciano Gherghetta, chitarra.
Blues Gang (1990 – 2008): Alberto Marsico, tastiere; Davide Dal Pozzolo, sax; Andy Romeo, sax; Marco Vintani, chitarra; Marco Messeri, basso;
Maurizio Borgia, batteria; Alessandro Minetto, batteria; Stefano Pesce, basso;
Marco Costa, tastiere; Katia Costa, tastiere; Lele Zamperini, batteria;
Massimo Sbaragli, basso; Andrea Scagliarini, armonica e voce; Massimo Pavin,
basso; Ilaria Lantieri, basso; Lucio Falco, basso; Massimo Bertagna, batteria;
Roberto Berlini, batteria.
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