Cadillac Records
(regia di Darnell Martin)
di Amedeo
Zittano
Un film sulla storia della Chess Records! No,
non potevo perdermelo...
Negli anni 50 la Chess Records costituì la culla del Chicago Blues;
l’intuizione dei fratelli Chess (Leonard e Phil) di investire in una
casa discografica fece la loro fortuna, sia dal punto di vista
economico che sociale. In quegli anni, durante il boom dei jukebox, i
dischi diventarono una vera e propria miniera d’oro. I “minatori” del
settore furono talent scout e discografici che fecero grandi affari
pubblicando le hits che avrebbero segnato la musica moderna.
No, non potevo non vederlo…
Una voce narrante (quella di Willie Dixon) racconta la storia della
nascita della Chess Records e del Chicago Blues. La regista struttura
il film in modo frammentato, come un racconto: una scelta difficile
considerando i gusti del pubblico abituato alle storielle ormai
formattate in mille salse. A mio parere la Martin ha trovato un giusto
compromesso tra l’esposizione di eventi storici documentali (tipo la
saga “The Blues” di Scorzese) e la narrativa romanzata a prova di
profano ("The Blues Brothers").
A differenza delle biopic di Jerry Lee Lewis e Ray Charles (giusto per
portare due esempi), Cadillac Records espone in una sola pellicola la
vita di più personaggi e lo stesso Leonard Chess sembra essere solo un
punto di partenza, un pretesto per raccontare le storie di Muddy
Waters, Little Walter, Howlin' Wolf , Etta James e Chuck Berry.
Un film brillante che riesce a trasmettere appieno lo stato d’animo del
Blues, da dove nasce e come veniva espresso a metà del '900 nella Windy
City anche se, ad onor del vero, qualche neo è possibile trovarlo. Uno
di questi è il "clamoroso silenzio" su Phil Chess, l'altrettanto noto
fratello di Leonard. Certo, raccontare in 109 minuti la nascita del
Chicago Blues, del R&B e del Rock’n’Roll è arduo, ma relegare Phil
al marginale ruolo di fonico, in un film dedicato proprio ai fratelli
Chess, è certamente una grave mancanza.
Tuttavia, mi sembra eccessiva l’opinione di qualcuno che definisce
quest’opera come "priva di coesione e fantasia (a causa della
sceneggiatura frammentata), mancante di rigore selettivo e di buone
idee, che chiama in causa troppe personalità complesse e troppi temi
cruciali mancando della penetrazione e dell'intelligenza necessari a
dare spessore al tutto...”.
Personalmente ritengo che, a volte, sia necessario ascoltare le storie
così come sono state raccontate per decenni, apprezzandone i contenuti
senza dover necessariamente dimostrare il contrario o qualcosa di
diverso…
Ovviamente, non è mia intenzione anticipare i contenuti di questo film,
a tratti anche cruento, che racconta di demoni vestiti da angeli e di
angeli vestiti da demoni; un film che mi ha emozionato e (vi dirò...)
anche un po’ commosso.
"Angeli perduti
del Mississippi, storie e leggende del blues" (Fabrizio Poggi, Meridiano
Zero 2010)
di Amedeo Zittano
Ricordo molto bene la prima volta che incontrai
Fabrizio Poggi. Avvenne a Polverigi in occasione di un suo concerto.
Notai subito che Fabrizio è un uomo fiero e silenzioso che osserva ogni
cosa; che quando parla si concede delle piccole pause tra una frase e
l’altra: una persona che ama riflettere prima di parlare.
Premetto che, avendo letto anche il suo primo libro “Il soffio
dell’anima”, certamente sarò in qualche modo condizionato. Noto subito
che il format comunicativo è rimasto invariato, una sorta di
dizionario, o diario magico, che permette di navigare come spiriti (o
angeli...) tra i flutti del Blues. Fabrizio riesce per la seconda volta
a trasformare una lettura, apparentemente didattica, in una narrativa
intrigante, semplice e diretta, dove le date si indicano per raccontare
le storie (e non viceversa), tanto che, alla fine, della formula del
“dizionario” rimane solo un pretesto artistico semplicemente per il
gusto letterario di narrare a dosi controllate, o “pillole”, le più
belle storie del Blues.
Il titolo sembra quello di un romanzo e sorprende il lettore che si
ritrova immerso in una struttura discreta, da dizionario scritto, con
uno stile denso di morbida eloquenza. I contenuti sono i più vari, dal
semplice significato di una parola o frase di una canzone, alle più
complesse retrospettive dei grandi personaggi; dalla semplice
descrizione di un borgo di Chicago, alla scoperta dei veri significati
lirici del Blues; tutto ordinato dalla “A” alla “Z”.
La copertina (sarò inevitabilmente condizionato dal suo primo libro
e... con tutto il gran rispetto per Crumb) questa volta mi delude un
po’. La scelta di un classico, il “non voler rischiare” nella ricerca
di una grafica nuova, manifestano una strategia troppo contrastante con
lo spirito di Poggi; per questo, seppur di fronte ad una delle più
belle e suggestive opere di Mr. Robert Crumb, non la preferisco alla
splendida ed inedita opera della Zelaschi.
Alla fine del libro si ha come la sensazione che tra gli Angeli perduti
del Mississippi ce ne sia qualcuno italiano, partito magari un secolo e
mezzo fa e che, per un motivo o per l’altro, abita oggi gli stessi
cieli.
"Unplugged"
di
Roberto Ciotti (Castelvecchi Editore, 2007) di Amedeo Zittano
Scrivere di Unplugged, l'autobiografia di Roberto Ciotti,
per me non è stata cosa semplice in quanto Roberto è stato uno dei
primi bluesman italiani che ho conosciuto ed al quale sono
particolarmente affezionato, nonostante non ci siamo mai conosciuti di
persona se non alla fine dei suoi concerti quando gli chiedevo di
autografare i suoi dischi.
Ricordo che in una di quelle occasioni, a Napoli, mentre mi avvicinavo
al suo tavolo con una “pregiata” busta della spesa contenente i suoi
dischi, Roberto mi osservò in modo diffidente come se volessi vendergli
qualcosa a cui non era interessato, poi vedendo il contenuto della
busta realizzò il mio intendo e nel suo volto si scorse un timido
sorriso. Prima di firmare i dischi sgranava gli occhi e li osservava
con cura, li apriva delicatamente, rileggeva qualcosa, per un attimo
sembrava quasi accarezzarli malinconicamente mentre borbottava
qualcosa. Quando infine li autografò, mentre me li rendeva, pronunciò
un’unica parola guardandomi fisso negli occhi: “Grazie”.
Collezionare i suoi vinile, ascoltarli e cercare di carpire i segreti
del suo personalissimo e inimitabile stile, seguirne l’evoluzione
bluesistica che si spinge ai limiti della canonica concezione del blues
in Italia, per me è stata da sempre una sfida condotta in un terreno di
battaglie culturali dove a vincere, nonostante tutto, è stato sempre e
comunque l’uomo.
Unplugged completa un quadro iniziato oltre vent’anni fa, dandomi le
risposte che mi mancavano. L’uomo Ciotti, per chi non lo conosce, è
assai discreto, oserei dire ermetico, a volte schivo ma che
musicalmente esprime un’immagine di se esattamente opposta alle
sensazioni empatiche che il personaggio potrebbe trasmettere.
In “Unplugged” Ciotti narra la sua straordinaria storia che diventa il
veicolo ideale per raccontare quella di un’intera generazione di
musicisti oggi considerati pionieri dello spaghetti Blues ma che negli
anni sessanta erano visti come capelloni scellerati, paradossalmente
indegni di appartenere alla società e per questo alieni. Innumerevoli
particolari storici fanno da cornice ad una vita vissuta senza fili:
unplugged, per l’appunto. Roberto omaggia i lettori allegando al libro
un CD dall’omonimo titolo nel quale ripropone il meglio della sua
discografia registrata completamente in acustico.
Come al solito, evito di entrare nei contenuti poichè ritengo che, mai
come in questo caso, “Unplugged” sia un libro da leggere senza alcuna
anticipazione, né pregiudizio. Scoprirete così un lato finora poco
conosciuto del bluesman della Garbatella cresciuto a spaghetti (anche 1
kg. da solo…) e chitarra; un artista che, a torto o a ragione, è stato
sempre coerente con se stesso, ad ogni costo, un richio che, dal mio
punto di vista, i giovani di oggi non avrebbero mai avuto il coraggio
di correre…
Questo libro quindi, oltre che per conoscere la storia di un musicista
e - più in generale - di una società, dovrebbe servire alle nuove
generazioni (musicisti e non) per comprendere i valori umani, lasciando
perdere gli stereotipi che la società del consumo ci impone sfruttando
senza scrupoli i mezzi di comunicazione globale come fossero siringhe,
per drogare le nostre menti fino a farci completamente rincoglionire
rendendoci succubi di prodotti tanto inutili quanto squallidi.
Non posso che concludere ricambiando Roberto con la stessa parola da
lui pronunciata anni fa mentre mi restituiva il disco “Bluesman” appena
autografato: “Grazie”.
Il Mandolino
Blues
di Gianni Franchi
Uno degli strumenti meno
conosciuti in ambito blues è il mandolino. Al di là di alcune classiche
incisioni di Johnny Young e Yank Rachel, rara è infatti la presenza di
tale strumento nel blues classico.
In
tempi recenti si può ricordarne l'uso in alcune registrazioni di Taj
Mahal, ancora più recentemente di Otis Taylor e della South Memphis
String Band (Luther Dickinson, Alvin Youngblood Hart, Jimbo Mathus).
Tale strumento, utilizzato nella musica classica e popolare europea e
divenuto l'emblema della musica napoletana (ma molto utilizzato anche
in Scozia e, soprattutto, in Irlanda), è conosciuto negli Usa
principalmente per il suo utilizzo nel bluegrass da parte di uno dei
pionieri di questa musica, Bill Monroe.
Con il suo mandolino piatto ideato dalla Gibson, Monroe unisce nella
sua musica la tradizione bianca della musica popolare (in special modo
irlandese), brani per violino, rags, ballate con alcuni spunti presi
proprio da alcuni suonatori neri dello strumento.
Infatti, benchè poco noti, diversi mandolinisti neri, preso in prestito
lo strumento probabilmente dagli immigrati italiani ed irlandesi nei
primi anni del secolo, si esibivano nelle “string band” composte in
genere da violino, mandolino, basso e chitarra/banjo, e nelle jug band.
W.C.Handy, autore di brani classici come "Memphis Blues" e "St. Louis
Blues", ricorda nella sua biografia “ Father of the blues” quando, in
giro per il Sud con la sua orchestra che suonava musica europea, fu
costretto ad interrompere un'esibizione di fronte alle richieste del
pubblico di colore che cominciò a chiedergli la “musica di casa
nostra”. Handy e la sua Banda furono così costretti a lasciare il palco
ad un trio formato proprio da mandolino, chitarra e basso. Il successo
del trio che suonava, secondo le orecchie da musicista colto di Handy,
una musica ossessiva e sgraziata, sconvolse il compositore.
Ed è questo un preciso riferimento risalente ai primi del 1900
sull'utilizzo del mandolino da parte di suonatori di colore. (Brano
citato in “Blues. La musica del diavolo” Giles Oakley ,Shake ed., 2009,
pag. 48).
Proprio come il banjo di cui Otis Taylor ha voluto recuperare le radici
afroamericane con il suo splendido album “Recapturing the banjo”
(Telarc 2008) anche il mandolino vanta quindi una grande tradizione nel
blues più antico, ora un po' dimenticata.
Nelle note introduttive del sopracitato CD, a cura di Weissman, si
ricorda la presenza del banjo nelle sue varie forme ed in diversi
momenti della musica afroamericana: negli Hot Five and Seven di Louis
Armstrong, in alcune registrazioni di Jelly Roll Morton, nella musica
di Papa
Charlie Jackson e Gus Cannon. (per maggiori
informazioni www.blackbanjo.com)
Come per il banjo, anche le origini del mandolino blues si perdono
nelle nebbia degli albori di questa musica.
Tuttavia alcuni musicisti vengono ancora oggi ricordati dai vari
cultori del mandolino blues che, come vedremo, non sono così pochi come
si potrebbe pensare.
Un punto di riferimento importante per chi è interessato all'argomento
è il libro del mandolinista americano (di chiare origine italiane) Rich
Del Grosso “ Mandolin Blues. From Memphis to Maxwell street“ (Hal
Leonard).
Nel libro Rich ripercorre le origini del mandolino blues trattando la
storia di alcuni dei precursori dello strumento con esempi didattici
utilissimi per chi volesse apprendere, oltre la storia, la tecnica
dello strumento.
Come afferma Rich, anche se tutti i veri cultori del blues conoscono le
registrazioni di Muddy Waters alla Stovall Plantation, sono ben pochi
quelli che ricordano le registrazioni, sempre effettuate per la
Libreria del Congresso, di Muddy come membro dei Son Simms Four (con
Louis Ford al mandolino e voce).
Sempre Rich racconta un divertente aneddoto: quando i Rolling Stones
chiamarono Ry Cooder per alcune registrazioni gli chiesero di suonare
nella loro versione di “Love in vain” dei licks nello stile
mandolinistico di Yank Rachel.
James “Yank” Rachel è stato infatti uno dei mandolinisti blues più
conosciuti e registrati nel blues; a lui è stato recentemente dedicato
un CD tributo con la presenza di molti mandolinisti americani.
(http://www.mandolindy.com/yank).
Yank, che si è esibito con Sleepy John Estes, John Lee "Sonny Boy"
Williamson, Washboard Sam, Henry Townsend, e Big Joe Williams, ha
composto alcuni famosi blues come “Diving Duck” e “She caught the
katy”, resa celebre da Taj Mahal e poi dai Blues Brothers.
James Yank Rachel fu infatti uno dei capostipiti nel mandolino blues,
uno dei primi ad elettrificarlo ed a usare accordature diverse (ad
esempio, una che gli permetteva di suonare più facilmente in Mi,
tonalità amata dai chitarristi blues). Yank morì ad Indianapolis nel
1997 alcuni mesi dopo la sua ultima apparizione pubblica ad un concerto
in suo onore organizzato da John Sebastian dei Lovin Spoonful.
Divertente il racconto di come Yank ebbe il suo primo mandolino.
Innamoratosi dello strumento di un vicino lo scambiò con un maiale
“preso in prestito” dalla fattoria della madre.
Un altro mandolinista già citato della scena blues post bellica fu
Johnny Young, spesso presente anche come chitarrista sideman per
Sonny Boy Williamson, Muddy Waters, Walter
Horton e Otis Spann.
Johnny Young utilizzò il mandolino nei contesti più elettrificati di
Chicago Blues, con accordature alternative come quella in DGBE (Re Sol
Si Mi). Nato a Vicksburg nel 1917 si trasferì a Chicago negli anno 30
dove visse e lavorò fino al 1974, anno della sua dipartita.
Tra i mandolinisti meno conosciuti, ricordati nel libro di Rich Del
grosso e nei numerosi siti dedicati al mandolino, bisogna citare
Charlie Mc Coy.
Nato nel Mississippi nel 1909 fu attivo a Memphis sia con il fratello
Kansas Joe Mc Coy che come sideman di vari artisti come Tampa Red,
Tommy Johnson, Mississippi Sheiks, Memphis Minnie, Georgia Tom.
Altro mandolinista afroamericano fu Howard Armstrong nato nel 1909 nel
Tennessee. Multistrumentista, come molti dei musicisti itineranti di
inizio secolo, padroneggiava il mandolino il violino e la chitarra. Fin
dal 1930 inizia a registrare per la Vocalion il brano “Knox Country
Stomp” con un altro grande esponente del mandolino nonché
polistrumentista Carl Martin. All'ensemble venne dato dal produttore il
nome Tennessee Chocolate Drops . Con Martin alla chitarra e mandolino,
e successivamente con Ted Bogan, il trio continuò ad esibirsi negli Usa
negli anni 30 arrivando fino a Chicago ed eseguendo un mix di blues,
polke, valzer, rags, ballate e canzoni europee imparate dagli immigrati
ed altre musiche.
Proprio Armstrong racconta in una intervista ( Blues Access N. 35 -
1998 reperibile sul sito http://www.bluesmandolin.de/page10.html ) che
a causa dei suoi frequenti spostamenti per il paese una volta si trovò
di fronte un pubblico di soli italiani inizialmente non molto ben
disposti verso lui: avevano appena sentito alla radio il match di
pugilato in cui il nero Joe Louis aveva sconfitto il gigante italiano
Primo Carnera. Tuttavia quando Armstrong iniziò a biascicare il suo
“Tennessee italian”e cominciò a suonare tutte le canzoni italiane che
conosceva conquistò anche quel pubblico.
Dopo aver girato tutto il paese ed un po' dimenticato dal mondo
musicale Howard giunse a Detroit dove lavorò per la Chrysler fino agli
anni 70.
Riscoperto dal Folk Blues Revival Armstrong, si riunì con Bogan e
Martin per alcuni tours e delle registrazioni. Partecipò al documentario sulla sua vita “ Loui Blue” di Terry Zwigoff
ed a “Sweet old song” di Leah Mahan . Armstrong fu anche consulente di
Quincy Jones per le scene ambientate nei juke joints.del film “ Il
colore viola”. Nel 2003, senza mai smettere di suonare, Howard
Armstrong ci ha lasciato.
Il suo partner Carl Martin, nato nel 1906 in Virginia, registrò anche
in proprio e con Big Bill Broonzy, Tampa Red e Bumble Bee Slim.
Eccellente chitarrista e violonista, si esibì in diverse formazioni a
Chicago. Tornato dalla guerra si ritirò dalle scene fino alla riunione
della fine anni 60 con Bogan ed Armstrong. Morì nel 1979. (Per maggiori
notizie LIVING BLUES No. 43 / Summer 1979 riportato anche su
http://www.bluesmandolin.de/page11.html intervista di Pete Welding).
Numerosi sono poi i mandolinisti polistrumentisti attivi in string e
jug band che per brevità non ho citato ma che si possono trovare in
antologie e nei siti dedicati al mandolino.
Non sono pochi i musicisti blues al giorno d'oggi che hanno dedicato
parte della loro musica al mandolino blues tra questi vorrei ricordare:
• Rich Del Grosso con il Cd “ Get Your Nose Outta My Bizness”, già
citato autore del libro sul mandolino blues
• Gerry Hundt, autore di “ Since way back” nonchè polistrumentista e
mandolinista nella band di Nick Moss a Chicago
• Billy Flynn con il divertente “ Chicago Blues Mandolin”,
• Alvin Youngblood Hart con “Down in the Alley”
• Bert Deivert con “Takin' Sam's Advice”.
Per chiudere non poteva mancare un accenno all'Italia ed una
chiacchierata con un valido esponente del mandolino blues nel nostro
paese, Lino Muoio, componente dei Blues Stuff ed artista in proprio. Vi
rimando per maggiori informazioni su di lui all'intervista di Amedeo
Zittano proprio qui, su Spaghetti & Blues.
Ho iniziato chiedendo a Lino qualche notizia sul Cd che sta preparando,
dedicato proprio al mandolino blues...
LM: “Il cd è un omaggio a quella che è stata la mia esperienza del
mandolino blues. in particolare ho avuto modo di suonare con gli Hot
Tuna e Barry Mitterhoff... e lì mi si è aperto un mondo. Ho iniziato,
come ti dicevo, da Sam Bush, poi Grisman e poi quelli più blues in
particolare, anche perchè più vicini a quello che suono con i Blue
Stuff.
Così ho arrangiato i brani storici dei Blue Stuff con il mandolino
(tipo Fuje pascalì o L'acqua è poca) e da lì ho iniziato a suonarlo
regolarmente ..”
GF: Come hai avuto l'occasione di incontrare gli Hot Tuna ?
LM: “Con gli Hot Tuna abbiamo suonato ad un festival in Sicilia, il
Summertime blues festival ad Alcamo. Noi abbiamo aperto il loro
concerto e abbiamo suonato assieme... la dedica di Mitterhoff sul mio
mandolino è una cosa preziosissima che conservo gelosamente”
GF: “ Raccontami qualcosa sui brani che stai preparando per il CD...”
LM: “ Sei sono miei e sei le cover, un "omaggio" ai maestri del blues...
Tra gli artisti delle cover ci sono ovviamente Yank Rachell, “Whatcha
doin?” (versione con Sleepy John Estes), e Carl Martin, “Grave digger
Blues“, poi c'è “You may leave but this will bring you back” della
Memphis jug band e “Mandolin rock” di Johnny Young.
GF: “ E' stato difficile reperire e scegliere i brani originali di
questi mandolinisti?
LM: “ Il brano di Yank è stato difficile da selezionare perchè non
volevo cadere nelle solite (banali) scelte... guarda non è stato
semplice ma quando hai la voglia e la passione ci riesci.
Io ci sono arrivato leggendo la biografia di Yank, poi seguendo il
percorso di Rich Del Grosso ed infine studiando le discografie. I
dischi fisicamente li ho presi tutti negli Usa.”
GF: “ A proposito di Yank, ho letto che usava accordature particolari
per suonare in Mi con i chitarristi, le hai mai provate?
LM: “Si ed ho provato anche quella di Bill Monroe con i bassi
differenti ma non mi sono trovato molto... preferisco quella
tradizionale... a proposito, Yank l'accordava un tono e mezzo sotto per
suonare in Mi”
( Nota: il mandolino classico è accordato come il violino MI LA RE SOL
partendo dalla corda più acuta a quella più bassa, forse anche per
questo molti dei primi mandolinisti suonavano entrambe gli strumenti)
GF: “ Qualche altro nome di mandolinisti che ti hanno influenzato? “
LM: “ Coley Jones (Dallas String Band), Phebel Wright ed il grandissimo
Charlie McCoy
GF: “ Confesso che Phebel Wright non lo ho mai sentito nominare...”
LM: “Allora procurati un disco che si chiama “Vintage mandolin music”
c'è un brano, “Lint Head Stomp”, di questo mandolinista praticamente
sconosciuto che mi ha fulminato!“
GF: “Ora ti faccio una domanda difficile: il mandolino è sicuramente
uno strumento che noi italiani abbiamo, se non nel cuore, almeno nelle
orecchie, soprattutto a Napoli. In che modo ha influito la tradizione
napoletana sul tuo modo di suonare?
LM: “ Bella domanda... la risposta è a mio avviso "la melodia". Il
mandolino non è "tanto" uno strumento ritmico ma piuttosto un "colore"
con cui puoi suonare bene dalle melodie napoletane alle melodie del
mandolino nella tradizione irlandese.
GF:”Bella risposta... Pensi sia possibile che, in qualche maniera, la
tradizione napoletana attraverso gli immigrati sia passata agli
afroamericani?
LM: “Direi di si anche se la tradizione del mandolino negli Usa si
sviluppa prevalentemente sulla base irish… anche se il discorso
ovviamente si complica e non vorrei essere riduttivo. Ad ogni modo, il
mandolino era uno strumento "semplice" come la chitarra e il banjo per
i bianchi quindi necessariamente collegava le persone "semplici" come
potevano essere gli immigrati irlandesi o italiani e gli schiavi del
sud... ovviamente non mi permetto di generalizzare su queste
questioni... ho troppi libri sull'argomento per sintetizzare così…
ehhehhe (risata)”
GF:” Ok, raccontami qualcosa ancora sul CD , sui brani originali e
alcuni strumentisti coinvolti”
LM: “Il Cd è composto da brani strumentali e cantati, i primi sono
ripescati dal mio primo CD e riarrangiati con mandolino mentre quelli
cantati sono – diciamo – nuovi, ed ho scritto anche i testi in inglese
perchè l'italiano proprio non mi piace… ehhehhe... li canta Guido
Migliaro, ex Blue Stuff.”
Con questa piacevole chiacchierata si conclude il nostro incontro con
il mandolino, in cui inevitabilmente, per dovere di sintesi, ho dovuto
tralasciare diversi nomi ed aspetti dello strumento e sintetizzare
storie molto dense di avvenimenti. Di questo mi scuso invitando tutti
gli appassionati a portare il loro contributo all'argomento...
!!! Abbiamo ricevuto e pubblichiamo con orgoglio
la seguente e-mail dal grande Rich Del Grosso:
"Cari signori,
Ho apprezzato l'articolo dal Gianni Franchi sugli Mandolin Blues!
Eccelente!
Lo voglio sapere che sia in Italia questo agosto; suonaro agli festa di
Blues a Popoli il 12 agosto, ed insegnaro il Blues al Accademia
Internazionale del Mandolino Italiano in Savonna fra 22 agosta al fine
del settimana. Ho famiglia in Abruzzo; in San Benedetto dei Marsi e
Avezzano.
Forse possiamo incontrarci un momento mentre sono nel paese?
Auguri!
Rich DelGrosso
Houston Texas, USA
appendice
"Mandolin
Blues", l'occasione per una chiacchierata con Lino Muoio
In coda all’articolo sul Mandolino blues avevo intervistato uno dei più
validi esponenti di questo particolare filone: Lino Muoio. Avevamo
lasciato Lino che stava preparando il nuovo cd interamente dedicato al
mandolino blues. Ora a distanza di tempo il lavoro è terminato, dato alle stampe ed anche recensito e ben
accolto dalla comunità blues. Ho pensato così di integrare l’intervista
alla luce del nuovo lavoro.
Ho chiaramente ascoltato con molta attenzione il cd e lo ho trovato
molto ben realizzato e curato, un lavoro di livello internazionale. In
tutto l’album si respira una sana aria di old time music dove il
mandolino trova il suo spazio, pur essendo sempre al servizio della
riuscita musicale del brano.
Si sente lo sforzo e la ricerca di un musicista raffinato che non vuole
ripercorrere solo la strada maestra già fatta dai musicisti americani
ma contribuire con la sua creatività e dire qualcosa di personale
creando brani originali pur rimanendo nello stile.
SB: Allora Lino, raccontaci come è stato accolto in Italia ed
all’estero questa tua opera dedicata al mandolino blues?
LM: E’ stata accolta bene, soprattutto dalla critica che è stata molto
generosa. In particolare in Francia il disco ha avuto ottime recensioni
e molti passaggi in radio. Evidentemente hanno compreso l’originalità
del progetto che consiste nell’unire un elemento della cultura tipica
napoletana come quella del mandolino con la tradizione del Blues
americano.
SB: Quali difficoltà hai trovato nel comporre brani originali senza
però allontanarti troppo dalla tradizione?
LM: Non tante a dire il vero. Già da tempo, con i Blue Stuff,
utilizziamo il mandolino nel repertorio della band. A questo va
aggiunto che gli oltre 20 anni di esperienza, ma soprattutto la
passione e lo studio del Blues prebellico, hanno dato una mano
importante, non solo nel comporre i brani, ma soprattutto nel mantenere
il dovuto rispetto della tradizione del Blues.
SB: In alcuni brani l’uso dei fiati ci porta ancora più lontano nel
tempo, quando le origini dei vari stili sembrano confondersi. A cosa o
a chi ti sei ispirato per questo tipo di arrangiamenti?
LM: Alle origini del Blues e del Jazz. Avevo in mente l’atmosfera di
New Orleans nell’arrangiamento di alcuni brani e, per fortuna, ho
incontrato musicisti di altissimo livello che hanno saputo interpretare
quello stile in modo fantastico.
SB: Un brano, “That old time blues“, è stato scritto con Veronica
Sbergia, recente vincitrice, con grande orgoglio di noi bluesman
italiani, dell’European Blues Challenge. Come è nata questa
collaborazione?
LM: Con Veronica ci conosciamo già da un po’ di tempo e questo brano è
nato per caso perché in prima battuta non era previsto. Quando eravamo
in sala io e Fulvio Sorrentino (dobro) abbiamo improvvisato
sperimentando particolari posizioni di microfoni senza però un’idea
precisa in testa. Ovviamente quella sul disco è la prima take anche
perché quando abbiamo riprovato a rifarla non ci siamo più riusciti
(ehehehehe). Ad ogni modo l’atmosfera vintage del brano mi ha fatto
venire in mente Veronica che, con i Red Wine Serenaders, credo sia una
delle interpreti più valide e preparate a livello europeo sul country
Blues prebellico. Così l’ho chiamata, e le ho chiesto se le andava di
scrivere qualcosa di originale ed è venuto fuori "That Old Time Blues".
Ci piace sottolineare che questo è il primo brano che Veronica scrive di suo pugno
in assoluto, e racconta di come si è innamorata del Blues ascoltando la
sua musa ispiratrice, Ma Raney…
SB: Hai trovato in Italia o in Europa altri mandolinisti in ambito
blues che ti senti di segnalarci?
LM: In Italia di mandolinisti dedicati al Blues direi che non ce ne
sono molti. In ambito internazionale ti segnalo un punto di riferimento
assoluto che è Rich Del Grosso, straordinaria persona, musicista è
soprattutto studioso di Blues. Oltre a lui altri musicisti importanti
sono Jim Richter, Gerry Hundt e Billy Flynn.
SB: Sei riuscito a portare live questo progetto dedicato al mandolino?
LM: Si, ci stiamo lavorando molto. Come sai la situazione attuale è
veramente critica per cui è molto difficile avere occasioni per
proporre questo progetto, nonostante la sua originalità. Ad ogni modo,
tutte le occasioni che abbiamo avuto per farlo ascoltare hanno avuto
ottimi riscontri.
SB: Mi è piaciuto molto il brano “Miss Swmiss“ un blues scarno ed
ipnotico cantato benissimo da Lonnie Wilson, che ne è anche coautore.
Ci puoi raccontare qualcosa di più su di lui e su questa collaborazione?
LM: Lonnie è semplicemente un genio. Ci siamo conosciuti su internet e
c’è stata subito un’affinità musicale molto forte. Quando gli ho
mandato la base avevamo discusso su un’atmosfera alla John Lee Hooker,
ma non avevo idea del testo e gli ho lasciato carta bianca… Il
risultato è quello che si sente. Se ci fai caso la struttura armonica
non è regolare ed i cambi di accordo non arrivano sempre allo stesso
punto. Lonnie è stato veramente geniale a creare una melodia ed un
testo surreale surreale basato su fonemi e frasi in slang che
ripercorrono un dialogo tra un uomo e la sua donna.
SB: Bene a questo punto raccontaci qualcosa degli altri musicisti che
hanno contribuito al tuo cd .
LM: Sono state tante le persone che hanno collaborato al disco.
Musicisti eccezionali ma soprattutto, e ci tengo a sottolinearlo,
grandi amici! Il gruppo base è formato dai Blue Stuff (Mario Insenga,
Francesco Miele, Sandro Vernacchia) con cui collaboro da oltre 13 anni.
Poi ci sono altri amici, ex Blue Stuff, come Guido Migliaro e Renato
Federico. Veronica Sbergia l’abbiamo già citata, poi c’è Michelle
Chiuchiolo che canta "Sweet Little Woman", e tanti altri amici
americani (Bob Green, Milke Supnick ecc.). Per il missaggio e il master
mi sono affidato a Riccardo d’Acunto, anche lui amico di vecchia data
che con la sua straordinaria preparazione tecnica ha permesso di
ottenere risultati sonori molto vicini ai riferimenti americani a cui
mi sono ispirato.
SB: Chi fosse interessato dove puo’ acquistare il tuo cd ?
LM: Per chi è a Roma e Milano ci sono un po’ di negozi, mentre le
occasioni principali direi che restano i concerti, oltre che internet.
Questi i link:
[CD Baby] http://www.cdbaby.com/cd/linomuoio3
[Cheyenne Records]
http://www.cheyennerecords.it/prodotti.php?id_prodotto=PR000101&id_lingua=it
[Roma] Doctor Music (zona Prati)
http://www.facebook.com/pages/DOCTOR-MUSIC/61889269061
Hocus Pocus (zona San Giovanni)
http://www.facebook.com/pages/HOCUS-POCUS-RECORD-STORE-ROMA/124960387547693
[Milano] Zig Zag http://www.zigzaglibricd.com/
Buscemi:
http://www.buscemi.com/catalog/product_info.php?ln=ita&products_id=2000000093
[Ravenna] Rok
http://www.rokmusic.it/node/382?albumid=MW0002440772&nameid=MN0002121998&nome_artista=Lino%20Muoio&
provenienza=Muoio,%C2%A0Lino&set=ok
SB: Alla fine di questa piacevole chiacchierata non posso chiederti che
dei progetti futuri. Visto il successo dell’esperimento, hai in
programma un nuovo lavoro dedicato al mandolino?
LM: Beh, direi che avendo aperto una piccola stradina come filone di
Blues, almeno in Italia, sarebbe un peccato non seguirla no? ...
“Anche a Buddha piace il Blues”
(Mauro Righi - Perrone Lab, 2010)
di Amedeo Zittano
Mauro Righi, classe ’74, nato in una
periferica Milano tutt’altro che da bere, pubblica il primo dei suoi
romanzi che aveva iniziato a scrivere nella seconda metà degli anni 90
anche se, ad onor del vero, non è il suo primo lavoro letterario;
“sulla strada” (giusto per ricordare Jack Kerouac, uno dei suoi
autori preferiti), ha scritto altri romanzi e un gran numero di poesie
e racconti.
Nel 2005 Mauro fonda insieme ad amici attori, poeti e musicisti, gli
O.P.M. (Organismi Poeticamente Modificati), un laboratorio che ancora
oggi propone performance poetico musicali dal sapore provocatorio, come
lo stesso nome suggerisce.
Il Righi è un artista completo in quanto non si cimenta solo in
letteratura, musica e teatro, ma, giusto per concludere il suo
“quadro”, è anche pittore (ma ovviamente per vivere in Italia fa
tutt’altro lavoro…).
Il titolo e la copertina non rappresentano soltanto una brillante
scelta di marketing (con il solo obbiettivo di catturare l’attenzione
tra gli scaffali di una libreria o tra le pagine del web), “Anche a
Buddha piace il Blues” mantiene infatti la promessa del contenuto
assumendo così un ruolo da “trampolino” che permette al lettore di
tuffarsi nelle profondità, se pur in chiave moderna, del pensiero
filosofico dell’autore.
Ovviamente non vi anticipo la storia se non solo per alcuni particolari
come la premessa, che sottolinea in modo scrupoloso (forse troppo) che
tutti i fatti e i nomi sono inventati e puramente casuali… un caso?
Beh, se l’obbiettivo era quello di lasciare il dubbio, nel mio caso è
stato raggiunto in pieno perché, vi assicuro, il racconto rispecchia
(almeno in parte) la storia che si cela nell’anima di tutti noi
(musicisti di blues e non) e che, tranne in qualche rara eccezione,
nessuno ha il coraggio di ammettere sino in fondo.
Un bluesman di periferia, il protagonista, incontra una cantante
affascinante ed eccitante; un viaggio dove la partenza, incastonata in
una Milano tanto squallida quanto adorabile, è solo un dettaglio che
non si sa bene dove condurrà, ma che lascia chiaramente intendere che
l’importante non è il traguardo ma il percorso intrapreso per
raggiungerlo.
Il racconto è narrato in prima persona, Mauro intreccia sapientemente
passione, erotismo, molto Blues, New Age. In alcuni versi assume toni
satirici e dissacranti, come fossero confidenze tra amici al bar
(magari sorseggiando una doppio malto fresca).
Il linguaggio è essenziale, poeticamente aspro e arricchito di
strategici particolari che sembrano quasi voler esorcizzare ad arte una
solitudine non necessariamente triste, non necessariamente negativa,
proprio come Buddha a cui, ora ne siamo certi, piace il Blues...
Nell’ultima parte del libro, una sorta di “guida all’ascolto”
suggerisce la colonna sonora ideale per questa lettura, rigorosamente
blues!
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