Pat Hare: dalla band di Muddy Waters a quella del carcere di
Stillwater State di Gianni Franchi
Come
sappiamo, la vita di molti bluesmen americani non è stata facile.
Troppe volte, ben prima delle trasgressioni dei divi del rock, la
loro condotta di vita li portava su strade molto pericolose. Pat
Hare fu uno di questi. Se avete la passione dei dischi storici di
Muddy Waters della Chess o, ancor prima, di alcune splendide
registrazioni della Sun Records con James Cotton, Little Junior
Parker e molti altri, il suo nome non vi sarà sfuggito. Né tantomeno
il suono della sua micidiale chitarra blues. Ed è ancora sua la
chitarra in “Further On Up The Road“, grande successo di Bobby
“Blue” Bland .
Uno dei pochi brani incisi a suo nome per la Sun Records di Sam
Phillips, ma pubblicato ufficialmente solo molti anni dopo, si
intitolava “I’m Gonna Murder My Baby”. E mai titolo fu più
profetico… Pat Hare infatti nel 1962 uccise a colpi di pistola la
sua donna Aggie Winje (per la cronaca, sposata con un altro) ed il
poliziotto intervenuto per sedare la lite.
Nel 1964 fu condannato all’ergastolo per duplice omicidio e
trascorse il resto della sua vita nel carcere di Minneapolis fino
alla morte avvenuta nel 1980.
Il suo vero nome era Auburn Hare, ma la nonna lo ribattezzò Pat,
il nomignolo con cui è ancor oggi conosciuto da tutti. Cresciuto in una
fattoria in Arkansas, ben presto si divise tra la passione per il
baseball e quella per la chitarra. Ma la vicinanza di Memphis non
poteva che portarlo sulla strada della musica.
Giovanissimo, iniziò a suonare con Howlin’ Wolf che lo prese sotto
la sua tutela e lo introdusse nel mondo del blues sopportando anche
i lati peggiori del suo carattere. Sembra che una volta volesse
anche prendere a pugni lo stesso Wolf che lo sovrastava per altezza,
peso ed esperienza. Per sua fortuna Wolf si limitò a riportarlo alla
fattoria di famiglia, consigliando ai parenti di dare una bella
strigliata al giovane… Nonostante tutto, la collaborazione con Wolf
continuò ed il giovane Hare cominciò ad essere richiesto anche da
altri artisti della zona. Il legame più duraturo fu quello con James
Cotton. Con lui suonò anche nelle prime leggendarie registrazioni
di Cotton per la Sun Records. I brani: “ My Baby “, “Straighten Up
Baby”, “Cotton Crop Blues”, “Hold Me In Your Arms”, realizzati in
quelle sessions, sono degli splendidi esempi di blues a cui la
chitarra aggressiva e fortemente distorta di Hare da un notevole
contributo (ed ancora non era stato inventato il distorsore!).
Divenuto anche chitarrista sessionman per la Sun Records, appare
nelle registrazioni di di Rosco Gordon, Little Junior Parker, Walter
Horton, Memphis Ma Rainey, e molti altri.
Nel
maggio del '54, Sam Phillips decise di farlo debuttare anche come
artista solista. All’armonica fu chiamato il compagno James Cotton
ma, prima che la session finisse, una scazzottata tra i due fece si
che l’armonicista venisse allontanato dallo studio. Tuttavia
l’amicizia tra i due continuò, tanto che Cotton nel 1957, appena
unitosi alla band di Muddy Waters, lo chiamò a Chicago per
sostituire Jimmy Rogers.
Pat Hare suonò negli anni successivi con Muddy Waters, apparendo
negli album “Live At Newport“ e “Muddy Waters Sings Big Bill”.
Anche a Chicago il suo brutto carattere, alla fine, lo mise nei
guai. Ubriaco, minacciò infatti con un fucile la fidanzata
dell’epoca e si trovò ad essere ricercato dalla polizia. Hare
all’inizio si nascose a casa di Muddy Waters ma finì col tornare a
Memphis .
Nel '63 Mojo Buford, ex sideman di Muddy Waters, lo rintracciò nella
sua fattoria per invitarlo ad unirsi alla sua nuova band a
Minneapolis. Ma Pat Hare non perse le cattive abitudini e la
dipendenza dall’alcool continuò ad intralciare la sua carriera
artistica. Sveniva diverse volte sul palco e doveva essere mandato a
casa. Visto che la cosa si ripeteva troppo spesso, Buford si rifiutò
di pagarlo. Hare per tutta risposta (manco a dirlo...) minacciò di
ucciderlo.
Senza più una band con cui suonare e perso nell’alcool, le cose non
fecero che peggiorare fino ad arrivare al culmine con il duplice
omicidio della sua “baby” e del poliziotto. Era un uomo talmente
diverso da ubriaco da non ricordare niente, una volta tornato
sobrio, di quel terribile episodio.
Nella prigione di Stillwater, Hare finalmente si liberò dalla
schiavitù del bere e prese a suonare nella band del carcere.
Ammalato in fase terminale gli fu permesso di lasciare il
carcere per suonare. In una di quelle occasioni si unì anche alla
band di Muddy di passaggio nella sua città.
Nel 1980 il cancro ha avuto la meglio su di lui.
Notizie più approfondite su Pat Hare si possono trovare in “Living
Blues“ e “Juke Blues“.
Kalamazoo Gals: una storia di donne e chitarre di Michele Lotta
Gli appassionati del marchio Gibson e delle
sue leggendarie chitarre troveranno questo articolo di particolare
interesse. Ne sono protagoniste le Kalamazoo Gals, ovvero le giovani
operai della Gibson inc. nel corso degli anni della seconda guerra
mondiale. Il titolo del progetto è infatti "Kalamazoo Gals: A Story
of Extraordinary Women & Gibson 'Banner' Guitars of WWII" e si
concretizza nel libro di John Thomas (foto),
professore di diritto e chitarrista “ancora in lotta per la mediocrità”
(per sua testuale definizione) fortemente appassionato di chitarre
d'epoca.
La storia ebbe inizio quando, per caso, Joe si trovò tra le mani una foto degli anni
quaranta che ritraeva le Gals (termine in slang che significa
ragazze) "sorridenti e vestite con abiti primaverili" in posa
davanti lo stabilimento di Kalamazoo. Ne rimase letteralmente folgorato e nella sua mente iniziò a farsi spazio una teoria...
Gli anni di riferimento - come detto - sono quelli della seconda
guerra mondiale pertanto la gran parte degli uomini si trovava oltre
Oceano a combattere;
nonostante tutto, la fabbrica continuava a produrre proprio grazie alle Gals.
John Thomas ha trovato in quelle chitarre delle tracce che, se
confrontate con i medesimi modelli fatti in precedenza o in seguito,
evidenzierebbero differenze che, seppur piccole, sembrano tuttavia
rilevabili. Non potendole smontare, ha utilizzato i raggi X per
scrutarle all’interno. Ben presto, le prove si sono appalesate in modo
talmente credibile che molti possessori di quegli strumenti li hanno spediti negli
Stati Uniti per avere indicazioni
precise (per quanto possibile) sul costruttore. Appare ovvio comunque che quelle chitarre
furono assemblate in buona parte da abili
mani femminili.
Thomas ha incontrato più volte le dodici Gals
superstiti di quei tempi discutendo amabilmente con loro
del libro e di ciò che avrebbe inteso realizzare. Nei racconti delle
anziane signore, ha trovato delle conferme: la forza lavoro di
quel tempo
era composta per il 90% da operaie e solo da pochi operai.
Al libro, Thomas ha voluto abbinare un CD che riporta nel titolo uno
slogan pubblicitario della Gibson apparso
nel '43 sulla rivista Metronome Magazine: "The Light Still Burns",
affidandone la realizzazione alla chitarrista e cantante Lauren
Sheehan, eccellente musicista ed insegnante di Portland, Oregon, alla
quale ha anche dato in prestito 12 Gibson tra le oltre 1500
pervenutegli da ogni parte del mondo.
La parola d'ordine del disco è: "Dodici Donne, Dodici Canzoni,
Dodici chitarre". Se le dodici canzoni vengono riesumate dalla metà
del 1800 (avete capito bene!) ai primi anni del novecento e le
dodici donne sono le Kalamazoo Gals incontrate da John Thomas, le chitarre
utilizzate sono le vere protagoniste, segnalate una per una con
tanto di sigla e anno di produzione
(elencate
in calce per il godimento degli amatori...).
Credo fondamentale l'ascolto del
disco della Sheehan per cogliere i suoni sottilmente diversi prodotti dai vari modelli,
realizzati con amore
e competenza tali da renderli dei "pezzi unici".
L'indirizzo per richiedere il CD è: http://www.laurensheehanmusic.com/buy.php. Il libro è disponibile
(in inglese…) su Amazon.com.
chitarre:
track 1 "1943 Southerner Jumbo", FON 2426-13; track 2 "1942 LG-2"
FON 2122-38; track 3 "1943 LG-1", FON 7706H-25; track 4 "1944 J-45"
FON 2944-18; track 5 "1944 J-45" FON 1012; track 6 "1945 LG-2" FON
642; track 7 "1943 L-50", No FON; track 8 "1943 Southerner Jumbo",
FON unreadable; track 9 "1942 J-45", FON 923-45; track 10 "1943
J-45" FON 2221-23: track 11 "1943 Southerner Jumbo", FON 910; track
12 "1943 Sotherner Jumbo", FON 2735-12.
I Maestri dello Shuffle di Gianni Franchi
Uno dei miei grandi sogni di appassionato di blues
è quello di poter tornare indietro nel tempo per ascoltare dal vivo una
della storiche formazioni di Muddy Waters e, visto che nei sogni tutto
è possibile, magari anche suonarci almeno una canzone. Oltre
all’indubbio piacere di condividere il palco con maestri come Muddy,
Little Walter, Jimmy Rogers, Otis Spann, una cosa che mi avrebbe
particolarmente interessato come bassista, sarebbe stato suonare con
uno dei maestri della batteria blues come Elgin Evans, Fred Below,
Francis Clay, i primi e più importanti batteristi della MW band.
Con loro, il sound di Muddy Waters è arrivato al suo apice realizzando
tutti i capolavori dell’epoca Chess. Ai tempi, un vero e proprio
batterista blues a Chicago forse ancora non esisteva e per questo Muddy
si servì, per le sue prime band, di musicisti provenienti dal jazz.
Il primo batterista ad apparire nei brani di Muddy Waters per la Chess fu Elgin Evans.
Di lui non abbiamo molte notizie. E’ nato nella contea di Lincoln, nel
sud degli States, nel 1909 con il nome di Elga Edmonds e suonava la
batteria ed il washboard.
Arrivato a Chicago negli anni 40,
incominciò a suonare con diversi gruppi jazz fino a quando, all’inizio
del 1950, prese il posto di BabyFace Leroy nella band di Muddy Waters.
Elga Edmonds era conosciuto in città per la sua precisione (forse
proprio per questo il suo nome si tramutò in Elgin, una marca famosa di
orologi); girava sempre con una agendina dove segnava i suoi impegni,
aveva un gran senso del ritmo e sapeva suonare piano quando necessario.
Benchè abituato a suonare jazz, Elgin accettò di buon grado la proposta
di Muddy visto che in quel momento a Chicago il blues sembrava “portare
più date” del jazz.
Con Muddy condivideva inoltre la passione per il cibo, il gioco delle carte e l’alcol.
La prima formazione di blues moderno vedeva quindi Muddy, Jimmy Rogers, Elgin Evans, Otis Spann, Little Walter.
Ma nelle registrazioni, Leonard Chess all’inizio non voleva quel sound,
pensava a qualcosa di più rurale, meno innovativo. Nella session
dell’ottobre 1950 che produsse “Louisiana Blues”, è menzionato per la
prima volta Elgin Evans al washboard, presente insieme al fido Big
Ernest Crawford al basso e Little Walter all’armonica. Sul lato B,
registrato nella stessa session, Elgin invece non è presente
nonostante il titolo del brano strumentale sia proprio “Evans
Shuffle”. Sembra infatti che il brano non sia dedicato al
batterista ma ad un altro Evans di nome Sam, conduttore radiofonico,
proprietario dell’Ebony Lounge e fan di Muddy.
Alcuni aneddoti rivelano che nella session di “She moves me“ (luglio
1951) il buon Elgin non riusciva a star dietro all’armonica
scatenata e amplificata di Little Walter che lo sovrastava totalmente
di volume. Si racconta che Leonard Chess, particolarmente attento al
suono della batteria, sia entrato in studio e, dopo aver cacciato via
in malo modo Evans, si sia messo lui stesso alla cassa (ed ascoltate a
che volume la ha registrata!).
Ritroviamo Evans in alcuni dei brani più belli di quel periodo: “Stuff
you gotta watch”, “Baby please don’t go”, “Blow wind blow”, “Hoochie
coochie man“, “I just want to make love to you”.
Dal settembre 1954 il nuovo batterista in studio di Muddy Waters
divenne Fred Below mentre Evans continuava a seguirlo dal vivo.
Fred Below, nato nel 1925 a Chicago, iniziò a suonare jazz ammirando molto il lavoro di Gene Krupa, Buddy Rich e Chick Webb.
Venne presentato proprio da Elgin Evans alla band dei mitici Three
Aces: Junior Wells voce e armonica ed i fratelli Myers, Louis
(guitar) e Dave (bass) .
Dopo l’uscita di Junior Wells dagli Aces per rimpiazzare Little Walter
nella band di Muddy, Below lo seguì. La formazione guidata da Walter diventò una delle più famose di Chicago.
Batterista di punta della Chess, Below registrò decine di brani, oltre
che con Muddy, Howlin' Wolf, Little Walter, Sonny Boy Williamson,
Willie Dixon, anche i primi rock’n’roll con Chuck Berry e Bo Diddley.
Magistrali le sue incisioni di “I’m ready “ con Muddy e “ Maybellene”
con Chuck Berry.
Una delle sue ultime registrazioni di successo fu “School days “ di Chuck Berry del 1957.
Negli anni seguenti continuò il suo lavoro in studio e dal vivo con
moltissimi artisti (Platters, Moonglows). Nel 1967 realizzò un tour in
Africa organizzato dal dipartimento di Stato con Junior Wells. Below
racconterà con entusiasmo questa esperienza alla rivista “Modern
Drummer: “Era il paese delle percussioni, avevo occhi, orecchie e le mie dita pronte ad imparare ogni piccola cosa che sentivo“.
Nel 1970 ricomparse al fianco dei fratelli Myers per un nuovo tour in
Europa con gli Aces e negli anni seguenti suonò in diverse formazioni
“All Stars” che celebravano il magico sound del Chicago Blues degli
anni d’oro.
Diceva che il suo trucco era di suonare “a blues beat with a Jazz feel”.
Nel 1988 Fred Below è morto di cancro.
Dal 1957 al 1967 il posto di batterista della
band di Muddy (come viene raccontato anche nella biografia di Muddy
scritta da Robert Gordon) fu occupato principalmente da Francis Clay, un batterista che influenzerà tutte le successive generazioni di blues drummers.
Nato a Rock Island, Illinois nel 1923 in una famiglia musicale, fin dai
10 anni iniziò a trafficare con due bacchette. Anche lui di formazione
jazzistica ebbe il suo primo ingaggio professionale nel 1939 con
l’orchestra di Jay Mc Shann (orchestra che aveva avuto, tra gli altri,
Charlie Parker e Dizzy Gillespie!).
Nel 1940 formò la sua band, Francis Clay And His Syncopated Rhythm,
breve esperienza che lo convincerà a non presentarsi mai più come band
leader. Trasferitosi a New York, collaborò con diverse formazioni
jazzistiche.
Non è chiaro l’anno in cui Clay iniziò a collaborare con Muddy Waters
infatti, mentre quasi tutte le fonti riportano il 1957, Clay era già
stato accreditato come batterista nelle session di Muddy Waters per la
Chess dal 1955 (“Young fashioned ways” – “The Chess box”).
Clay infatti si trovava proprio a Chicago allora, in tournée con Gene
Ammons, ed era rimasto senza lavoro poichè il suo band leadervenne arrestato.
Muddy era scontento di Elgin Evans che ancora lo seguiva dal vivo,
voleva una marcia in più per la nuova band e Clay capitò a proposito.
“Mr. Be Bop” veniva chiamato Clay perché, pur avendo una grande
esperienza, non aveva mai suonato quel tipo di blues. Ma, dopo qualche
tentativo (aiutato da Muddy che gli fece sentire che ritmo doveva
suonare), si adattò benissimo al sound della band tanto da rimanerci
per diverso tempo.
Oltre ad essere presente nello storico album "Muddy Waters Live
At Newport" (1960), Clay registrò con John Lee Hooker, Lightnin'
Hopkins, Jimmy Reed, Big Mama Thornton, Otis Spann, Little Walter,
Jimmy Rogers, Earl Hooker.
Più avanti entrò nella James Cotton Band con cui effettuò diversi concerti e registrò l’album “Pure Cotton” (1968).
Alternò il lavoro con Cotton a quello con Muddy fino a quando, sul
finire degli anni 60, soffrendo di asma ed artrite decise di stabilirsi
al clima più mite della California.
Trasferitosi a San Francisco, collaborò con l’Arhoolie Records ed
incise con Big Mama Thornton, Lightnin' Hopkins e Clifton Chenier.
Diradando le sue apparizioni anche per motive di salute, Clay collaborò
con Johnny Dyer e Mark Hummel ed effettuò una delle sue ultime
registrazioni con Roy Rogers per l’album “Slideways” (2001).
“Ambasciatore” del San Francisco Blues Festival, fu qui oggetto
di una serata in suo tributo nel 2007. E’ morto nel 2008 all’età di 88
anni.
Nato come batterista jazz, Clay divenne uno dei più apprezzati ed
imitati batteristi blues (Charlie Watts dei Rolling Stones lo considera
una delle sue maggiori influenze) e si lamentò sempre di non aver avuto
riconoscimenti per il suo contributo agli arrangiamenti di alcuni dei
brani di Muddy come ad esempio “ Walkin’ thru the park”. Al giornalista
Tom Mazzolini Francis Clay racconta in un’intervista il suo primo
giorno con Muddy Waters: "Non
avevo mai suonato downhome blues nella mia vita e di colpo, senza
prove, mi ritrovai a suonare con Muddy. All’inizio fu un macello ma
dopo qualche giorno le cose cominciarono a funzionare tanto che Muddy
stesso mi disse: “Non so che stai suonando ma suona bene,
funziona”, ed alla fine sono rimasto con lui per degli anni! “ (“Crazy Music”Tom Mazzolini 1979).
Un divertente aneddoto ci fa conoscere un Francis Clay maestro di
giovani gruppi blues di San Francisco. Il musicista Billy
Stapleton racconta della sua emozione vissuta da giovanissimo
nell’incontrare “il mitico batterista di Muddy Waters!!!“ e di quante
cose abbia potuto imparare suonando con lui.
Per prima cosa, Clay gli insegnò l’importanza della dinamica in un
brano, interrompendo le prove ogni volta che desiderava comunicare
qualcosa ai ragazzi: “Lasciateli con la voglia di ascoltarvi ancora
invece di suonare tutto quello che sapete nel primo solo che fate“.
In un'altra occasione gli disse: “Sei tu che canti? - interrompendolo
il chitarrista nel bel mezzo di un riff un po’ troppo sonoro – no? beh,
allora lasciaci sentire chi lo sta facendo!“ (www.billystapleton.com).
"La crociata
antischiavista di Lincoln fu solo un abile business"
di Paolo Deotto - introduzione di Michele Lotta
La
storia del Blues, come si sa, nasce dalle vicissitudini del popolo
africano ridotto in schiavitù nel Nuovo Continente. Dato ciò come un
assunto - a dir poco - scontato, mi pare giusto di tanto in tanto farne
riferimento per rispolverare il problema del razzismo che, in maniera
più o meno celata, continua ad esistere anche ai giorni nostri (non
solo in America…) con le medesime motivazoni: il diverso colore
della pelle unito all'appartenenza a classi sociali distanti tra loro.
E' infatti chiaro che personaggi come Carl Lewis, Eddie Murphy o lo
stesso Obama, siano... neri per caso!
Focalizzando l'attenzione sui
primi neri americani, ho trovato molto interessante la descrizione di
quel periodo e di quei fatti realizzata da Paolo Deotto nello scritto
dal titolo "La crociata antischiavista del buon Lincoln fu solo un
abile business" che vi propongo proprio qui. Un approfondimento quasi
mai incluso dalle nostre scuole nell'insegnamento della Storia
americana, che fornisce una lettura ben più concreta di fatti,
personaggi e finalità, dell'epoca. Abramo Lincoln, la guerra di
Secessione ed un Nord antirazzista sono stati proposti in maniera
positiva, attraverso personaggi come il "coraggioso" generale Custer o
il celebre cane soldato Rin Tin Tin...
La realtà conosciuta però ne cela un'altra ben peggiore: mentre
l'attenzione era rivolta alla guerra Nord-Sud, i nativi americani
(detti anche pellerossa) venivano sterminati dai coloni bianchi
(appoggiati dall’esercito dell'Unione) per appropriarsi dei territori
che da sempre erano stati loro, nel nome di un progresso nascente fatto di treni e binari che non ne
prevedeva la presenza per uno stile di vita "primitivo" caratterizzato
da un sacro rispetto per la natura. Due mondi chiaramente incompatibili.
Neri e nativi hanno pertanto condiviso una vita di stenti e battaglie
condotte per la sopravvivenza. Dalla loro unione sono nati artisti che
avrebbero scritto la storia della musica del diavolo tra i quali il
famoso Aaron T-Bon Walker, nelle cui vene scorreva sangue Cherokee, e Mance Lipscomb tra gli altri.
L'esempio più noto di integrazione si trova nella multietnica città di
New Orlens dove il Mardy Grass (festa importata dai portoghesi) unisce
la cultura dei pellerossa e degli africani a quella europea (francese
in particolare visto che ne fu colonia). Esempi sono band nere come Bo
Dollis and The Wild Magnolias, ma anche artisti bianchi come Dr. John,
che ha fatto del woodoo la propria immagine. Quest’argomento però
merita uno spazio a parte. Nel frattempo vi invito a leggere la storia
narrata da Polo Deotto.
leggi
Johnny Winter: un tributo al chitarrista albino dall'anima nera
di Michele Lotta
Era
il 1988 quando assistetti per la prima volta (e – ahimè - anche
l’ultima) ad un concerto di Johnny Winter. Accadde al Festival di
Pistoia e, come per la maggior parte del pubblico presente in quella
torrida sera d’inizio luglio, fu un’esperienza davvero folgorante.
Winter sembrava una figura… “aliena”, per via della sua magrezza
anoressica esibita senza remore, a torso nudo. Il busto e le braccia
erano quasi del tutto ricoperti da tatuaggi ed in testa portava il
solito cappello texano adornato da due teste di crotalo con le bocche
spalancate. Appariva davvero “cattivo”.
La formazione era quella sua classica, in trio, e la chitarra (una
Lazer dal loook essenziale, tipico degli anni ottanta) sputava
letteralmente fiamme su un tappeto ritmico sempre sostenuto. Le corde
che usava erano sottilissime. Ne raccogliemmo una che cambiò durante
l’esibizione, lanciandola per caso vicino ai nostri piedi, e ricordo
che fummo tutti stupiti dalle insolite dimensioni.
I lunghi e bianchissimi capelli in contrasto con una voce roca che
sembrava appartenere ad un cantante nero ne completavano l’inquietante
figura. Nonostante ciò, qualche anno dopo venni a sapere da un amico
appartenente all’organizzazione del festival toscano che Johnny Winter,
al di la dell’immagine, era una persona gentile e molto interessata
all’arte, tanto che nel suo breve soggiorno volle osservare (rivolgendo
innumerevoli domande...) chiese, monumenti e quant’altro si trovasse
nei paraggi. Una passione insolita, nell’immaginario collettivo,
per uno che di mestiere faceva il chitarrista rock blues e perlopiù
texano.
Oggi è triste parlare di lui usando il tempo al passato ma, come
sapete, Johnny ci ha lasciato il 16 luglio. Chi ha vissuto i suoi anni
d’oro non dimenticherà mai l’ampia dedizione al Blues, nonostante il
talento e la velocità irrefrenabile delle sue dita l’abbiano spesso avvicinato
al rock più tosto che ci sia. Indimenticabile rimarrà la sua mitica
Firebird (un autentico marchio di fabbrica di cui la Gibson ha proposto
un modello "tribute"), assieme all’urlo: Rock and Roll!!!, che apriva
“Johnny B. Good” nell’album live “Johnny Winter And” (Columbia ’71) e
che rimarrà per me un’inesauribile fonte di adrenalina.
Prese parte allo storico festival di Woodstok nel '69 suonando
nove
brani!
Johnny Winter ha dedicato gran parte dei suoi anni alla musica. Iniziò
infatti molto presto: qualcuno sostiene che a cinque anni avesse
imparato a suonare l’ukulele. All’età di quindici anni, col fratello
minore sassofonista (anch’egli albino) Edgar, fondò il suo primo gruppo
pubblicando il disco “Schooldays Blues”. Nonostante Johnny l’abbia
spesso coinvolto nei suoi dischi, Edgar non ha avuto analoga fortuna
nella carriera artistica e si è progressivamente allontanato verso il
jazz ed il funky. Per quanto ne sappia, pare sia tuttora in attività.
Anche la vita di Johnny non è stata costellata solo di successi. Ha
fatto, per lunghi periodi, uso di eroina e ciò l’ha tenuto sovente
lontano dal palcoscenico procurandogli danni visibili e non…
Ma anche questo problema non gli ha impedito di realizzare una gran
quantità di lavori. Mi piace ricordare con particolare interesse il periodo
(dalla metà alla fine degli anni settanta) in cui strinse
un’amicizia-collaborazione con Muddy Waters testimoniata in dischi come
“Nothing But The Blues”, “Hard Again”, l'imperdibile "The Johnny Winter
Session 1976-1981", pubblicato nel 2009; e poi, le registrazioni per
l'Alligator di Chicago…
Nel corso degli anni novanta ed in questo primo scampolo di terzo
millennio, ha prodotto ancora diversi album, spesso live o raccolte di
inediti, senza nulla aggiungere ai suoi già prestigiosi trascorsi. E’
stato comunque costante sino alla fine ed anche oltre... L'ultimo
lavoro
"Step Back" verrà infatti pubblicato postumo, a circa due mesi dalla
morte, con tutte le caratteristiche di un testamento
artisitico in favore del Blues, il suo più grande amore, e la
partecipazione di tanti amici vecchi e nuovi.
Ha ispirato una quantità enorme di chitarristi, non ultimo il compianto
Stevie Ray Vaughan, diventato un’icona a sua volta, col quale aveva
anche condiviso per un po’ di tempo il suo storico bassista Tommy
Shannon.
La scomparsa di Johnny Winter non costuituisce "soltanto" la perdita di
un artista che ha appassionato folle di cultori ma anche di un
testimone autorevole di quella generazione che, pur
avendo tracciato un solco profondo nella musica e nella visione
“rivoluzionaria” della vita, oggi si va velocemente assottigliando ed
appare sempre più lontana e sbiadita. Un ulteriore motivo (ammesso che
ciò possa accadere) per non dimenticarlo… Johnny Winter aveva compiuto
settant’anni a febbraio del 2014.
Troverete: discografia, bio, rassegne stampa, foto e tanto altro, sul
suo sito www.johnnywinter.net.
Me and Mr.
Fernando Jones di Gianni Franchi
Capitano
a volte nella vita incontri inaspettati ma che si rivelano poi molto
interessanti. Succede così che alcuni giorni fa, ricevuto un messaggio
dall'amico Davide Grandi della rivista IL BLUES, vado ad incontrare un
bluesman di Chicago che, proveniente da Londra, si fermerà per un paio
di giorni nella Capitale.
Sono
in ferie e mi sembra giusto dare il benvenuto nella mia città ad un
esponente della musica che più amo. L'artista che andrò ad incontrare è
Fernando Jones e definirlo solo un musicista è molto riduttivo. Jones
infatti è un artista poliedrico, dai mille interessi e mille
sfaccettature. Conosco il suo nome per aver letto qualcosa su IL BLUES
ma cerco subito di informarmi grazie ad internet. Fernando Jones è un
bluesman, ma è anche un disegnatore, pittore, scrittore di opere
teatrali, libri ed ha una grande esperienza come educatore insegnando
anche al Columbia College. La sua Blues Kids Foundation è una
organizzazione no-profit che ha come scopo preservare e
promuovere, con l'aiuto di istruttori qualificati, il blues presso le
giovani generazioni. Nei suoi Blues Camp che si tengono in diverse
parti degli USA, ed ora anche a Londra, molti musicisti professionisti
ed educatori insegnano gratuitamente ai giovani allievi come suonare il
blues, tramandano la sua storia, la sua lunga tradizione. Cresciuto a
Chicago in una famiglia di musicisti, Fernando impara giovanissimo a
suonare la chitarra (ama assolutamente il modello Telecaster) ed altri
strumenti, canta e scrive canzoni. Un personaggio molto interessante da
conoscere.
Ci incontriamo quindi al suo hotel in una calda domenica di agosto. Non
so che tipo di persona aspettarmi perchè non tutti i bluesmen che ho
incontrato sono stati così affabili e facili da gestire, ma appena
Fernando si presenta e ci scambiamo i cd con rispettive dediche,
capisco di avere a che fare con una persona gentile, allegra e piena di
interessi.
Il suo cd è solo il primo regalo che fa a me ed alla mia compagna; dopo
un po' risale in camera e scende con mille piccoli doni tra cui: due
magliette, un plettro personalizzato, un braccialetto da donna con
plettro, materiale dei suoi Blues camp, e, molto gradito, il suo
libro “I was there when the blues was red hot“ (che si rivelerà una
lettura molto interessante).
Colpiti dall'accoglienza ricevuta e subito a nostro agio (sono già il
suo “brother“ romano), decidiamo di farci una chiacchierata mentre
accompagniamo lui ed il suo allievo ed amico Eli Taber a visitare Roma.
Tra l'altro è il momento migliore per una visita in centro
perchè la
maggior parte dei romani è in ferie e siamo invasi solo da tanti
turisti. Così la nostra gita che doveva essere di un'ora, alla fine si
protrae dal pomeriggio fino a dopo cena.
Fernando è molto interessato alla storia della città e si ferma
volentieri per fare foto ed avere alcuni cenni sui monumenti. Ogni
tanto si sofferma
a guardare con interesse i numerosi artisti di strada presenti nelle
vie di Roma, soprattutto ha interesse per chi dipinge e disegna ma si
ferma anche in piazza del Pantheon per ascoltare un chitarrista che
suona una canzone dei Dire Straits.
Camminiamo e camminiamo
scambiandoci idee sulla musica, sul blues, sulle sue iniziative, sui
mille personaggi che ha conosciuto. Fernando mi dice che preferisce
suonare le sue canzoni in cui cerca di mettere qualcosa di nuovo pur
nella tradizione di questa musica. Parliamo dei nostri amici comuni
Chicago Beau e Deitra Farr che ho conosciuto quando vivevano a Roma e
che ora sono tornati negli Usa. Gli racconto di Harold Bradley, suo
concittadino che vive a Roma; Jones è particolarmente interessato alla
sua storia, mi fa domande a cui, con il mio maccheronico inglese, cerco
di dare risposte. Ogni tanto Fernando si ferma per parlare con qualche
connazionale che incontra in giro, ferma un altro turista con la
maglietta “Chicago“ che però è
messicano, si intrattiene con le
commesse di una farmacia dove acquista pastiglie per la tosse e
regala plettri a destra e manca. Dopo aver camminato, visto la fontana
dei 4 fiumi a Piazza Navona che li ha particolarmente colpiti, bevuto
caffè (noi) e the (loro), ci fermiamo a riposare un po' in piazza San
Silvestro. Qui Fernando ispirato dalla pace e dal momento di relax,
scrive una bella poesia* sulla nostra gita, i bambini che giocano in
piazza, sulla amicizia al di la delle diversità di linguaggio, culture
e tradizioni.
Passati per piazza di Spagna, Fontana di Trevi, alla fine arriva l'ora
di cena e Fernando mi chiede se è possibile cenare insieme (specifica
pesce). Così lasciamo il centro di Roma, dove per mangiare del buon
pesce avremmo dovuto indebitarci fino alle future generazioni, ed
andiamo nel quartiere Testaccio molto popolare e pieno di ottimi
ristoranti tipici. La cena è divertente perchè la traduzione del menù
con i nomi dei piatti di pesce disponibili è veramente difficile per
me. Solo grazie al cameriere munito di smartphone ed internet riusciamo
a venirne fuori. Continuiamo a raccontarci un po' di cose, gli chiedo
se ha mai visto dal vivo Muddy, e mi racconta che aveva quattro anni
quando
andò a sentirlo con i suoi genitori e di non essersi nemmeno reso conto
di cosa stava vedendo. Mi parla di Willie Dixon, Junior Wells, Buddy
Guy, tutti musicisti che ha conosciuto e con cui aveva amicizia.
Parliamo dell'Italia, dei Festival Blues; mi chiede se studiamo musica
nelle scuole (cosa che lui ritiene giustamente importante), delle
organizzazioni criminali (purtroppo siamo famosi anche per questo
all'estero); parliamo di chitarre e bassi e mi mostra le foto delle sue
sul telefono.
Ma alla fine, dopo una bella giornata insieme, è il momento dei saluti;
lo riaccompagniamo in hotel, ci scambiamo indirizzi e telefoni, e ci
promettiamo di rimanere in contatto ed organizzare qualcosa insieme,
magari la prossima volta anche suonare.
Considero poi un grande onore il fatto che inviti me e la mia band a
suonare a Chicago dove durante il mitico Blues Festival lui ha un palco
in cui tiene concerti collaterali a quelli del cartellone
internazionale. Un sogno forse per chi come me ama questa musica da
tanti anni. E rimango a rimuginare su un altro sogno:
organizzare una scuola di
blues per bambini sull'esempio della sua Blues Kid Foundation. Un modo
per far conoscere questa musica alle nuove generazioni, tramandarla
loro e far continuare questa grande tradizione…
* I Write a
Poem (by FERNANDO JONES -
I write a poem
I write a poem in a piazza
In a piazza with friends in Roma
Witnessing the peacefulness of sculpture
And - of architecture.
On a sunny Sunday
afternoon
Children's laughter fills the negative spaces
With positive energy
Reminding us how wonderful it was to have been one.
I write a poem
I write a poem of friendship
Stronger than the weakness of the distant lands
Distance lands filled with ancient artifacts, ruins and wonders
And
The separation of languages
I write a song of life and love and oneness through music.
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