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Marco Ballestracci    (a cura di Amedeo Zittano)

Marco Ballestracci nasce il 5 agosto del ’62 in Svizzera (lo stesso giorno in cui muore Maryln Monroe!). Nel ’66 la sua famiglia si trasferisce in Italia, a Castelfranco Veneto. In passato ha lavorato come disc jockey e, per molti anni, ha scritto su giornali, quotidiani e periodici tra i quali "Il Blues" di Marino Grandi.
Marco è una persona schiettamente sincera e squisitamente modesta e come spesso accade per la maggioranza dei bluesmen italiani, non vive di solo Blues, anzi, per sostenere se e la sua famiglia, di mestiere fa il barista in una birreria.
Il suo rapporto con il blues è totalitario, egli suona l’armonica, canta, collabora con organizzazioni, ma soprattutto scrive. Così, tra una pinta e un riff, impugna penna e calamaio e va. Nel 2005 pubblica “Il Compagno di Viaggio, 9 racconti in blues”, nel 2006 scrive “Bluespadano - ritratti e blues di gente di Po” (entrambi edizione “Il Foglio Letterario di Piombino”). Attualmente ha in preparazione un altro libro dal titolo “A pedate” che però non disquisisce di Blues bensì di Calcio(!). I suoi libri raccontano grandi verità, scritti in modo così informale che, se non fosse per alcune frasi grammaticalmente studiate, sembrerebbe quasi di leggere la trascrizione esatta di una sua registrazione audio. Attraverso il suo stile letterario volgare (o comune) ha l’obbiettivo di confidare al lettore lo spirito del Blues con la stessa disinvolta dialettica di due amici che si incontrano. Ma, soprattutto, Marco esprime l’amore e la passione che, impetuosi come le acque del Po, scorrono nel Blues Padano. Anticiparvi i contenuti, credetemi, sarebbe un vero peccato. I libri di Marco sono da leggere
senza premesse ne suggerimenti. Sarebbe come se nel bel mezzo della lettura di un giallo qualcuno vi rivelasse il nome dell’assassino...
Come musicista, Marco suona da molto tempo con i Fieldmen Of Blues, gruppo apprezzato anche in Svizzera. Nel corso degli anni hanno partecipato ad un gran numero di manifestazioni tra le quali ricordiamo: Rootsway, Piazza Blues e Magic Blues. Come free-lance ha suonato con Claudio Bertolin in acustico e con la banda di Oracle King in elettrico, suoi grandi amici e mentori dai quali egli stesso confida di aver imparato molto. Il suo stile è schietto come il suo carattere, si definisce un armonicista alla continua ricerca di se stesso. Stilisticamente può apparire a tratti grezzo ma sostanzialmente propone un’espressione strumentale assai personale con sfumature rispettose dei pionieri afroamericani. Il suono è esaltato dal grande affiatamento della band formata da: Luca Morison (chitarra), Diego Bergamin (chitarra), Alessandro Lorenzoni (basso) e Massimo Furlan (batteria). Il suo ultimo CD, “Wimmen‘n’Devils” propone anche cover di bluesman italiani (personalmente, è il primo che ascolto) come Angelo Rossi e Claudio Bertolin, mentre le cover sono prevalentemente rielaborazioni di brani di Willie Dixon. Il CD contiene anche un motivo inedito dal titolo “The Luke”, scritto da Luca Morosin. La voce di Ballestracci sa essere coinvolgente, diretta e soprattutto attenta alle molteplici sfumature dei brani proposti. Con l'armonica, discreta e ben dosata, Marco riesce a proporre un sound assai accattivante.
 


Intervista


SB: “È il Blues a scegliere il musicista e non viceversa”, a fronte di quest’idea popolare, quando e come il Blues ti ha scelto?

MB: Era il 1971, guardando in TV il Festival di S. Remo mi capitò di ascoltare i Mungo Jerry che proponevano, in occasione della partecipazione al Festival, la famosissima hit “In The Summertime”. Quel brano che sapeva di Nero probabilmente mi spinse a porre la mia attenzione su quel tipo di sonorità. Da allora ricercai alla radio quel tipo di canzoni fino a che un giorno ascoltai uno stacco pubblicitario di John Mayall: “Room To Move”. Fu per me la svolta decisiva. Durante gli anni dell’università, per arrotondare un po’, facevo il DJ e chiaramente proponevo repertori di buona e sana Black Music aumentando così il mio bagaglio culturale. In quegli anni ero un atleta di rugby e mai avrei creduto di passare alla musica se non mi fosse accaduto un brutto incidente durante una partita: mi spezzai l’osso del collo inevitabilmente e mi dedicai totalmente all’altra mia grande passione, il Blues! A 26 anni mi laureai in Economia e dopo 5 anni da impiegato capii che quella non era la vita che desideravo; allora mollai tutto e cominciai a suonare. Per vivere però aprimmo (io e altri due soci) un bar che ancora oggi gestisco.

SB: Quali sono i tuoi riferimenti bluesistici (esteri e italiani)?

MB: In questo periodo ascolto e mi ispiro molto a Junior Wells perché lo ritengo un grande cantante e armonicista ma i riferimenti Italiani sono senza dubbio Claudio Bertolin e Angelo Rossi. Ci sono persone da cui impari senza che Loro ti insegnino niente.

SB: Come musicista/barista, se lo spaghetti Blues fosse un “cocktail”, dicci quale sarebbe la tua ricetta e perché?

MB: l’ingrediente principale sono le band di serie B e per serie B intendo quelle band che sono poco conosciute, li chiamano “emergenti” anche se esprimono Blues a grandissimi livelli, parlo di Angelo Rossi, Oracle King, Marco Pandolfi, Fast Frank e tanti altri. Una volta Marco Pandolfi disse che il problema del Blues Italiano era che le nuove leve prendevano come modelli altri musicisti italiani… aveva ragione. Per fortuna oggi non è più così, finalmente esiste una generazione di musicisti che guarda direttamente gli stili originali di Chicago, del Delta del Mississippi, etc.

SB: Da proprietario di un club invece, potendo vivere il blues anche dal lato del gestore, secondo te, quali sono le difficoltà che le direzioni artistiche hanno nel proporre il blues?

MB: Il grande problema dei gestori di locali è che fanno musica pensando che il locale và grazie alla musica. Un locale che và sceglie la musica che vuole; nel mio per esempio troverai Blues... i locali che non vanno credono di migliorare con la musica ma non è così! Si lamentano se, spendono fior di “soldoni” tra musicisti e Direttori Artistici, finiscono per fallire. C’è da dire anche che per fare musica bisogna che il gestore possegga un minimo di passione; ma ti assicuro che il successo di un locale dipende dalla qualità dei prodotti, dai prezzi e dalla “tendenza” che riesce a generare tra il pubblico.

SB: Bluesman americani in Italia. Raccontaci l’episodio del personaggio che più ti ha colpito.

MB: lavorando per i Festival ho conosciuto molti musicisti americani. L’anno scorso, ad esempio, Water Melon Slim tardava ad arrivare, puoi immaginare la tensione che man mano saliva con il passare del tempo: non sapevo cosa fare, non avrebbero potuto fare il sound check, chi avrebbe dovuto intrattenere lo spazio di Slim se si fosse presentato in ritardo… e se non si fosse presentato per nulla? insomma eravamo tutti nel panico. Venti minuti prima del suo turno ero ancora li a rimuginare una qualsiasi soluzione ma proprio mentre credevo che non ci fosse più nulla da aspettare, eccolo lì con il suo furgone. Arrivò 20 min prima del concerto per una serie di “giri anomali” lunghi 800 Km, come disse in seguito. Mi avvicinai alquanto preoccupato. Lui mi guardò con rilassata meraviglia e mi disse, “Beh? che c’è?”, io gli risposi, “come che c’è? non sei stanco?”. Slim mi rispose: “Perché dovrei esserlo? faccio l’autista di camion in Oklahoma, e aggiunse riferendosi alla sua band: “Andiamo ragazzi! c’è da suonare!”… il concerto fu tra i più belli che abbia mai visto, suonavano da paura e il pubblico era in delirio. Poi per via del fuso orario mi disse di non aver sonno, così passammo la notte insieme. Fu in quell’occasione che lo intervistai per le (B)louisletters di Luigi Monge.

SB: Da sempre in Italia ci sono fondamentalmente due correnti di pensiero, i conservatori e i progressisti. Cosa pensi in merito?

MB: Io personalmente non sono, ne uno ne l’altro.. il blues italiano può finalmente dire di fare blues allo stesso livello degli americani (anche perché esistono molti americani che fanno cagare). Esistono dischi italiani di valenza internazionale e questo è dovuto anche al fatto che il livello degli ascoltatori è molto cresciuto. Se un americano crede di fare bella figura in Italia suonando “Sweet Home Chicago” per due ore, probabilmente si prenderà tanti di quei vaff… Però c’è una grave pecca in Italia: esistano bravissimi strumentisti ma pochissimi cantanti, forse bisognerebbe pensare a cantare di più.

SB: Cosa ne pensi del Blues cantato in Italiano?

MB: non lo condivido, la forma linguistica inglese è piena di significati in gergo spesso difficili da comprendere, con l’Italiano si rischia di banalizzare il blues, la lingua italiana si presta poco alle metriche anche se il vernacolo si presta meglio, tuttavia sono disposto a ricredermi se mai qualcuno mi dimostrasse il contrario.

SB: “Blues Padano”.

MB: Un giorno passando per caso vicino Modena andai ad una rassegna dove suonavano dieci band, scoprii l’elevato valore che trasmettevano e me ne innamorai Cominciai così a seguirli e conoscerli. Più mi avvicinavo a loro e più cresceva la mia stima. Alla fine scrivere di loro mi è sembrata la cosa più naturale.

SB: Parlaci del tuo prossimo lavoro.

MB: purtroppo per te è di calcio, ma ho un altro libro nel cassetto dei desideri che parla di Blues, e se Papa Legba vorrà, Marco farà.

SB: Che ci dici di “Wimmen ‘n’ Devils”.

MB: questo CD è un ponte verso il nostro futuro, fondamentalmente orientato da brani chiave come: “Don’t Shut Your Door” di Rossi, “Baby Please Set A Date” di Elmore James e i due di Bertolin: “Have Been Down To Hell” e “Black Rain” che rappresentano meglio la direzione che abbiamo intrapreso, senza dubbio dai sapori mississippiani.

SB: Cosa è per te il Blues?

MB: Non lo so.

 

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