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 Pippo Guarnera "Turn on, tune in, drop out"   (a cura di Amedeo Zittano)

Erano i primi anni novanta quando gli “anziani” del circuito musicale tarantino mi parlarono per la prima volta dell’hammondista Pippo Guarnera. Era stimato sia per la sua magistrale abilità musicale che per la squisita cordialità che manifestava nei confronti di tutti. Per noi era semplicemente (e affettuosamente) chiamato “Extralarge”, poichè lo consideravamo il massimo esponente italiano per quanto riguarda i suonatori di Hammond.
Ma, nonostante i suoi imperdibili "passaggi" in Puglia, un’occasione vera e propria di parlare con lui non c’era mai stata fino a quando, qualche giorno fa, l’amico Maurizio Mat mi ha invitato ad una serata speciale al Naima Club di Marina di Montemarciano (AN), dove Pippo suonava come special guest con la Maurizio Mat blues band. Ovviamente, non avrei potuto fare a meno di esserci per incontrarlo.
Pippo nasce a Catania nel ’53 e non ancora ventenne entra a pieno titolo nel circuito musicale nazionale iniziando così un’intensa carriera fatta di centinaia di concerti, in Italia ed in ogni parte d’Europa, collaborando con gruppi storici italiani, in primis i Napoli Centrale (con i quali partecipa al Montreux Jazz Festival del ’75) ed Eugenio Finardi (con cui registra per la Cramps Records).
Nel 1977 decide di trasferirsi a Los Angeles per studiare arrangiamento per Big Bands specializzandosi in Orchestrazione e Film Scoring alla celeberrima Grove School. Al ritorno in Italia, nel ’83, la sua carriera si riconferma intensa più che mai. Collabora con RAI 1 in "Mister Fantasy" (primo programma italiano interamente dedicato ai videoclip); con Andy J. Forest e Billy Gregory (con i quali torna al Montreux Jazz Festival); ed ancora con Enzo Jannacci, Edoardo De Crescenzo e tantissimi altri artisti nazionali ed internazionali. Agli inizi degli anni novanta entra a far parte della Rudy Rotta Band con la quale suonerà per circa un decennio.
In seguito, le collaborazioni si susseguono in modo esponenziale e menzionarle tutte sarebbe improponibile. Da Sugar Blue a Carey Bell; da James Thompson e Vince Vallicelli (Magic Trio) a Luisiana Red, Billy Brunch, Tolo Marton; dalla Nannini agli Stadio;… insomma, Pippo e le sue tastiere sono apprezzati per tutti i generi musicali, da Chicago a Dubai: un'autentica eccellenza del nostro paese.

Intervista:

SB: “È il Blues a scegliere il musicista e non viceversa”. Supponendo "vera" quest’idea popolare, quando e come il Blues ti ha scelto?

PG: Potrei dire, parlando ovviamente della mia esperienza di vita, che vedrei l’affermazione più come simmetrica che non. Pensando a quando da adolescente ho comprato i miei primi vinili, sì una volta c’erano solo quelli (!), sono incappato in Ray Charles, Aretha Franklin (Dr. Feelgood), e francamente non saprei dire, ad oggi, perché ho scelto proprio quei dischi. Bisogna capire anche il periodo. Era la metà degli anni 60 e c’era il deserto musicale; la RAI aveva solo due canali in bianco e nero e per radio era lo stesso. Io suonavo ad orecchio “Non Ho l’Età” che era quello che c’era per aria a quei tempi, fino a quando, un bel giorno, un mio conoscente un po’ più grande di me e con un baby grand piano a casa, mi prestò il 45 di Ramsey Lewis “The In Crowd” cosa che mi ha trasfigurato! Ho avuto un flash potentissimo di conversione. Di li a poco trovavo immenso sollievo nei momenti di sconforto (ero adolescente) suonare da solo e al buio il Blues a la Ray …

SB: Avevi 24 anni quando, nonostante il tuo successo conquistato in Italia, maturasti la decisione di studiare negli States, cosa ti spinse a intraprendere quella strada?

PG: Ti riferisci al dopo Napoli Centrale naturalmente, momento che mi ha trovato con la consapevolezza di voler indagare più a fondo sulla musica che mi appassionava, oltre alla constatazione dell’esaurimento di una fase “italiana”. Subito dopo i “Napoli” ho partecipato, nel ’76, ad un tour di Eugenio Finardi: il tour “Diesel”. Finito anche questo avevo una fortissima voglia di cambiare aria. Tramite un mio caro amico chitarrista di Catania che era già partito qualche anno prima suonando nel circuito degli Hotels e locali del Giappone, Asia e degli Stati Uniti, presi un ingaggio con una “Italian band” sull’isola di Guam, nel bel mezzo dell’Oceania: pazzesco!
È durato circa sei mesi poi, di ritorno in Italia, fermandomi per una settimana a Los Angeles ho fatto visita al pianista del quale avevo preso il posto a Guam che, lasciando la band, si era trasferito in L.A. per studiare e… Bam! altro flash. In questa scuola ti facevano scrivere per orchestra e ti facevano suonare le tue robe con una orchestra vera! Era dicembre e, una volta tornato a casa dai miei, in capo a un mese ero di ritorno a Los Angeles. Back to school!!! A Los Angeles ho speso i cinque anni seguenti. Sono stati intensissimi e forse anche i più eccitanti di tutta la mia vita. Erano corsi full time e non c’era praticamente tempo neanche per andare in toilette; si respirava letteralmente musica e, visto che come dicono una ciliegia tira l’altra, non pago del corso di suonatore seguito da quello di arrangiatore mi sono pappato avidamente pure il corso di film scoring dove c’era da comporre per orchestra in maniera consistente ed in tutti i linguaggi dello scibile musicale. Non dimentichiamoci che L.A. è la città del cinema e grazie a questo ho avuto l’onore e la fortuna di poter studiare con musicisti di lignaggio stellare.

SB: Dagli anni 70 ad oggi l’ambiente musicale italiano è certamente cambiato, secondo te cosa è cambiato in meglio e cosa in peggio?

PG: Da un lato è un po’ svanita quell’ingenuità fine anni 60 che pur facendo affiorare di tutto, anche cose che sarebbe stato meglio far rimanere inespresse, dava una propulsione avventurosa che vedo molto scarsa al momento attuale. C’è anche da dire che come costume collettivo mi sembra di percepire in Italia una certa disaffezione verso la musica dal vivo, il che sicuramente non è una bella cosa.

SB: e per quanto riguarda l’ambiente musicale internazionale?

PG: Stesso discorso di prima. Questo probabilmente ha a che fare con lo zeitgeist, lo spirito dei tempi: massificazione, mistificazione, disillusione su scala planetaria. Adesso abbiamo la musica liquida, altro che vinile. Io stesso ormai tengo la mia musica opportunamente digitalizzata su di un hard disk e la compro da iTunes. Questo fa eco a quello che succede su scala globale, del resto a Taipei come a Oslo oppure a Memphis c’è un comune denominatore di ascolto e di fruizione che determina un grado di normalizzazione senza precedenti. Allo stesso tempo però (e questo va a nostra speranza) c’è una moltiplicazione di proposte ad andamento esponenziale, quindi una forma di contro-normalizzazione. Così ci troviamo di fronte a due tendenze opposte e contrarie, immagino per ciò che questa, dopo tutto, possa essere considerata un’epoca musicalmente interessante.

SB: Ad un certo punto della tua carriera hai cominciato ad entrare in circuiti musicali sempre più ampi, quali sono state le difficoltà maggiori?

PG: Cercare di mantenere un certo grado di autostima, purtroppo (forse) non sono bravo a sgomitare.

SB: e quale la soddisfazione più grande che hai avuto?

PG: Penso di avere una fortuna sfacciata, per me la maggiore soddisfazione è poter suonare ed avere così quei momenti di “perfetta immersione” che aiutano tanto al mantenimento della mia (illusoria?) sanità mentale. Grazie al cielo tutto ciò avviene con una certa frequenza.

SB: Ci parli del Magic Trio?

PG: Irripetibile avventura durata il breve arco di pochi anni, con James Thompson e Vallicelli eravamo diventati un’unica entità, praticamente telepatici. Componevamo i pezzi al momento, spesso andavamo sul palco senza una scaletta e senza sapere cosa sarebbe accaduto di li a qualche minuto, una vera jamming band nel senso più nobile del termine.

SB: Cosa puoi dirci del Rosa’s di Chicago?

PG: Ah, Tony Mangiullo! un grande. Ho suonato al Rosa’s solo un paio di volte e poche altre mi ci sono recato a sentire musica. Li ho suonato in jam con Billy Branch (metà anni 90), quando nella band c’era ancora Weathersby alla chitarra: che bella band che era. Rosa’s, anche se molto più in piccolo, mi ricorda tanto il mitico Grand Emporium di Kansas City o almeno quello che era fino a quando è stato in gestione a Roger Naber.

SB: Quali sono i tuoi progetti attuali?

PG: C’è in corso il Le Blanc project che, oltre ad avere come capofila la prodigiosa vocalist Ty Le Blanc include la presenza dei soliti noti (!!) cioè io, Nik Becattini, Vallicelli ed il grande bassista Leon Price, A.K.A. Carmelo Leotta. Inoltre da tre anni collaboro con la grande Linda Valori nel suo progetto “Linda Sings the Blues”. Senza contare Tiziano Mazzoni, un songwriter e cantante di Pistoia, ho partecipato alla registrazione del suo ultimo album e pur se la sua musica non possiede connotazioni prettamente blues, suonare nei suoi live mi diverte parecchio.

SB: e quelli futuri?

PG: Ho una quantità di materiale che tengo nel cassetto e che appartiene alla parte di me che è cresciuta a Los Angeles assieme ai concetti di composizione e orchestrazione ed al mondo neotonale e postminimalista popolato da musicisti come John Adams, Michael Daugherty o Evan Ziporyn, giusto per citarne qualcuno. Credo di aver individuato un grafico giapponese che realizza bellissimi shorts usando una tecnica innovativa di animazione e con il quale mi piacerebbe intraprendere una collaborazione, vedremo …

SB: Cosa suggeriresti ad un giovane “hammondista” alle prime armi?

PG: Praticare tantissimo e non avere paura di sperimentare, questo presuppone però la conoscenza di uno scenario di partenza. Nutrirsi di tutto ciò che riguarda l’Hammond, anche le cose che potrebbero sembrare lontanissime dallo strumento o dalle proprie immediate curiosità. Lo scenario è larghissimo, và dai tardi anni trenta del secolo scorso fino ai giorni nostri e c’è sempre qualcosa da imparare, sia che si tratti di Hetel Smith, di Stevie Winwood, Bill Dodget, Groove Holmes, Walt Wanderly, Wild Bill Davis oppure Larry Young o Earl Grant, John Medeski oppure Klaus Wunderlich...
Inoltre lo scibile musicale è vastissimo, come un oceano con tantissimi arcipelaghi, l’area Blues è uno di questi e costituisce insieme ad altri arcipelaghi il continente insulare della musica nera, ma c’è comunque tutto il resto: a chi non piace viaggiare ?

SB: Pensi che il Blues abbia un futuro o credi che, con l’inesorabile “depauperamento” dei grandi interpreti originali, si vada verso forme musicali che con il Blues avranno un rapporto di parentela sempre più lontana? (… o peggio, che il Blues resterà solo un’imitazione di se stesso?)

PG: È innegabile che tra gli anni trenta e i settanta (“Dallas Blues” però è stato depositato nel 1912...) sono vissuti gli iniziatori dei vari filoni musicali del blues e mi sembra che il Jazz abbia avuto più o meno lo stesso percorso temporale. Così come nel secolo successivo, cioè 80/90, o cento anni dopo se preferite, in un America senza più le acciaierie di Chicago, le famigerate still mills, dove sono confluiti nei primi anni 40 tanti neri che emigravano dagli stati del sud per cercare una vita migliore nella grande città. L’America odierna è popolata dalle più disparate etnie, e adesso con Twitter, YouTube, i negozi Wallgreens a pochi blocks di distanza l’uno dall’altro, le metropolitan areas, l’America interconnessa con Asia, Europa e tutto il resto in un immane network globale; Barack Obama, le corporations…; cosa impedisce al Blues di compiere un lento fade out verso la sterile rappresentazione di se stesso?
Io credo che tutto ciò che tocca le zone più interne del nostro animo, i punti nevralgici delle nostre sofferenze, così come fà la musica Blues, non tramonterà mai. Per il semplice motivo che il nostro nucleo emotivo interno di oggi è lo stesso di quello di cento anni fa o trecent’anni fa, ecco perché troviamo sublimi delle musiche scritte anche svariati secoli prima. Naturalmente i tempi cambiano, cambiano i costumi, cambia la maniera di porgere l’espressione, cambiano le sonorità degli strumenti, ma la disperazione, la sofferenza e i tasti dell’anima, sono sempre quelli.

SB: Cos'è per te il Blues?

PG: Questa domanda mi fa sentire come il pesce al quale chiedono cosa pensa dell’acqua…


 

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