Bye
- Bye BLUES BOY
- Napoli 20.07.06
"Penso che il blues sia come la Bibbia, racconta delle buone storie e insegna
delle cose. Cantiamo di cose che ci piacciono e di quelle che non ci piacciono,
di quello che vorremmo essere e quello che non vorremmo, e la Bibbia fa lo
stesso. E la gente torna sempre a leggere la Bibbia e ad ascoltare il blues".
dall'intervista di Ernesto Assante,
pubblicata su "La Repubblica" del 10 ottobre 2003
"Questa è la mia ultima tournée in Europa e per questo l'ho chiamata
International Farewell Tour, ma solo perché non posso più fare 15 ore di aereo.
In questi giorni ero in Spagna per concerti, e mi sono fatto pure 15 ore di bus:
ma è il mio, ha tutti i servizi necessari, mi sento a casa. Quando sono in aria
invece divento nervoso, e il medico mi ha consigliato che per il diabete è
meglio smettere di volare. Dunque continuerò a girare con il mio bus personale,
ma solo negli Stati Uniti".
dall'intervista di Marinella Venegoni,
Mantova 14/7/2006 - due giorni prima del primo concerto italiano
"Questo è il mio ultimo blues per il vostro Paese", annuncia presentando il Farewell Tour (tour d'addio).
Ma dobbiamo crederle? l'ha già detto tante volte...
"Lo hanno detto altri per me, ma ora è vero. Non sono eterno, tra poco avrò 81
anni, il diabete mi minaccia. Il medico mi proibisce di prendere l'aereo"
dall'intervista di Antonio Lodetti,
luglio 2007
In passato per un motivo o per l'altro, ho perso più di un'occasione di
ascoltare B. B. King dal vivo, è stata la prima volta quindi che mi sono trovato
al cospetto dell'ultimo dei Re.
È difficile recensire un personaggio sul quale da decenni un gran numero di
giornalisti, scrittori, storici, sociologi, fotografi e registi di fama mondiale
gli hanno dedicato articoli, libri, film e chissà quant'altro; mi limiterò
semplicemente a descrivere i fatti così come suggeriscono le mie sensazioni.
Insieme ad Angelo Agrippa (coordinatore di S&B per la Campania), che mi ha
accompagnato al concerto, abbiamo da subito goduto della suggestiva cornice
dell'Arenile di Bagnoli, e del buon clima, che hanno offerto al concerto
un'atmosfera ideale per coronare, a parer di cronaca, l'ultimo concerto
partenopeo dell'ottantunenne B.B. King.
BB: "Per il momento me la sono cavata senza finire sotto i ferri", ride B.B.
King, 78 anni, il celebre blues singer del Mississippi. "Con il mio diabete -
continua - c'è poco da scherzare e gli occhi... ", lascia intendere che è
proprio la vista a risentirne in modo grave. Ma i medici hanno pensato che
l'intervento poteva essere rimandato a ottobre in modo da consentire al cantante
di effettuare il suo lungo tour europeo, dal 22 giugno fino alla fine di luglio
2004.”
"Spagna, Francia, Svizzera, Italia, Germania... Non sono troppi questi
concerti, con quel brutto malanno sulle spalle?"
BB: "Fino a poco tempo fa - sospira B.B. King - ne facevo trecento
all'anno. Ora ne ho tagliato un centinaio. È la mia vita, che cosa faccio se non
suonare, cantare, cercare di dare alla gente quel po' di bene che ho dentro?”
"Il diabete è diventato l'incubo della sua vita. Da quando sono cominciate le
cure?"
BB: "Mi sono troppo trascurato e ora ne pago le conseguenze. Non avevo idea
che fosse una malattia così insidiosa."
"Lei contribuisce in modo notevole anche alla ricerca medica..."
BB: "Mi curo e cerco di dare una mano. Il diabete è un malanno che colpisce
troppa gente."
"Esiste una definizione di blues?"
BB spalanca gli occhi fingendo meraviglia, poi ride con quella sua bocca tutta
denti e dice: "Esiste una definizione di vita?"
dall'intervista di Vittorio
Franchini "Corriere della Sera" del 19 giugno 2004
Tra il pubblico, oltre che a un gran numero di musicisti e organizzatori di
Blues, come era facilmente prevedibile, abbiamo notato una massiccia presenza di
"stranieri" tra turisti e militari di tutte le razze e, nonostante fossimo molte
centinaia di persone, il pubblico è stato composto ed educato seppur
calorosamente partecipe. Abbiamo incontrato quasi tutti gli altri spaghettari
partenopei; quelli non presenti erano certamente impegnati in festival e
rassegna in giro per l'Italia. Così, dopo qualche chiacchiera e un paio di birre
tra amici, abbiamo preso posto.
La Blues Band apre con due brani strumentali alla fine dei quali, tra le note
del classico riff di introduzione, uno dei due trombettisti, vestito in perfetto
stile casual Mississippi anni trenta, annuncia B.B. King che, visibilmente
affaticato, si avvicina alla ormai consueta sedia, imbraccia una delle sedici "Lucille"
e, prima di sedersi, bacia affettuosamente il pubblico, così come farebbe un
nonno con i suoi nipotini, che ricambia in piedi con un calorosissimo e
prolungato applauso. Al termine della Intro BBK si rivolge al pubblico
scusandosi del suo "Bad English" e di essere costretto su una sedia; invoca e
ringrazia indicando il cielo, Dio (The Great Spirit), e il pubblico grazie al
quale è ancora su un palco dopo oltre sessant'anni di attività.
La voce è sorprendentemente limpida, il tono caldo e rassicurante e, seppur
seduto su una sedia, tra un brano e l'altro il Re balla, si racconta, ironizza
sulle donne, ride e si commuove come farebbe un ragazzino.
"Lei ha avuto 15 figli da quindici mogli..."
BB: "...non da 15 mogli ma da quindici donne diverse, non lo trova speciale?"
dall'intervista di Renato Tortarolo
pubblicata su " IL SECOLO XIX" del 24/06/2004
Mentre accarezza il canto di "Lucille" assorto nella musica, nel suo sguardo,
tutt'altro che rassegnato, è come se tornasse giovane, come se la sua
malattia non esistesse più; forse mai come ora è azzeccato il suo appellativo Blues
Boy, il ragazzo Blues che con la forza della gestualità è capace di abbattere
ogni barriera linguistica e culturale (oltre che fisica) facendosi comprendere anche da chi,
dall'altra parte del Mondo, non mastica l'americano. Uno show unico, fresco, che
sprigiona tutta la forza umana del Blues.
La grintosa B.B.King Blues Band è composta, oltre che dalla sezione ritmica, da
un secondo chitarrista, un tastierista e una sezione fiati di quattro elementi
(due sax e due trombe); tutti simpaticissimi afro-americani. Nel corso del
concerto la band cambia schema alternandosi tra una formazione completa ed un
quartetto, il tutto curato con estrema precisione, professionalità e tempismo
perfetti. Mi hanno fatto molto tenerezza le attenzioni dei musicisti nei
confronti di B.B. King, capaci di stargli vicino con la giusta discrezione,
rispettando la dignità di un anziano alle prese con la propria
vecchiaia: ad un
minimo cenno del Re, la band dimostra un affiatamento davvero unico!
In scaletta i più classici del suo repertorio come "Ain't Nobody Home", "Rock Me
Baby", l'emozionante "I've Got A Mind To Give Up Living" e un paio di
traditional in stile "King's Shuffle" come "You Are My Sunshine". In chiusura la
celeberrima "The Thrill Is Gone" durante la quale tutto il pubblico si alza
in piedi
avvicinandosi al palco ballando e cantando insieme fino a raggiungere il culmine
dell'entusiasmo. L'ultimo brano, dopo l'unisona richiesta di bis, è
un'allegra versione di "When The Saints Go Marchin' In".
Tutto fila liscio come l'olio, anche se una piccola/grande pecca da parte
dei fonici è da segnalare: un fastidiosissimo rumore di sottofondo
(probabilmente dovuto ad una errata regolarizzazione dei controlli del basso)
che ha costretto in
più occasioni The King ad interrompersi per "ringraziare" ironicamente i fonici
stessi con una serie di sorridenti "Thank You"...
L'ora e mezza di spettacolo passa in un baleno. L'anziano trombettista di
prima torna sul palco e sull'onda delle ultime note saluta e ringrazia tutti. Il
Re, come di consueto, prima di scendere dal palco si rivolge al suo pubblico
dicendo "My name... my name is, B. B. King... we love you".
Vedere ed ascoltare B. B. King dal vivo è stata una grande emozione per tutti,
sia per chi lo ha vissuto per la prima volta che per chi lo ha già visto più
volte da trent'anni a questa parte; così da buon spaghettaro ho chiesto ai
presenti un parere sul concerto: Gino Giglio (promoter napoletano di eventi
blues) ha riconosciuto che tra tutti i concerti del Re a cui ha assistito,
questo è stato il più bello ed emozionante; dello stesso parere anche Tommaso
Cerrone (Organizzatore del Liri Blues Festival). La Dott.ssa Carmen Passariello
(italo-venezuelana, promoter di grandi eventi per la Campania) dopo il concerto
ha così commentato: "mentre lo guardavo mi chiedevo cosa mai possa spingere un
uomo anziano e malato a sostenere uno stress di questo genere? I soldi? No! Non
credo, anche perché B.B. è già ricco e famoso... credo invece che sia l'amore e
la passione a dargli l'energia. Stasera ho visto migliaia di persone di tutte le
razze, età e cultura, tutti con in comune l'amore per il Blues, questa è la
forza del blues e B. B. King ne è un perfetto catalizzatore. Eventi come questo
fanno anche riflettere che il petrolio italiano sono le risorse umane, è grazie
a queste che è stato possibile avere un riscontro cosi meraviglioso".
In conclusione B.B. King, con sessant'anni di carriera alle spalle, Membro di
Blues Foundation Hall of Fame e Rock and Roll Hall of Fame (ha ricevuto varie
onorificenze, compresa la laurea ad honorem dell'Università di Yale, e
moltissimi premi e diversi Grammy), ha lasciato a tutti con grande umiltà, un
grande messaggio di Pace, dimostrati attraverso la capacità unica di unire i
popoli sotto il segno del Blues.
"Mister B.B. King, le hanno dato anche il Nobel per la musica: cosa desidera
di più?"
BB: "Tutto ciò che la gente vorrà ancora darmi. Qualsiasi cosa. Sto bene e sarò
felice di tutto quanto il pubblico deciderà di regalarmi".
dall'intervista di Renato Tortarolo,
" Il Secolo XIX" del 24/06/2004
“Lei come si definisce?”
"Un uomo che dal fango del Mississippi ha conquistato il mondo. Uno che ne ha
passate di tutti i colori e per questo apprezza la pace, la bontà e odia la
violenza e la droga".
dall'intervista di Antonio Lodetti,
luglio 2007
W il Re! Grazie Blues Boy.
Amedeo Zittano
ROMAN BLUES WOMAN
(Jarmush Club,
Caserta 12/05/06)
Una promessa mantenuta del blues italiano è atterrata venerdì 12 maggio a
Caserta. Qualcosa di veramente imperscrutabile l’avvolge, rendendo la realtà
superiore a qualunque immaginazione. Francesca De Fazi è indubbiamente un
affabile “tipaccio”. Il pubblico dello Jarmush si è, infatti, trovato di fronte
una one woman band loquace e a tratti civettuola, ma, elevata al cielo la sua
voce di carta vetro, tutti hanno capito l’antifona! Se non le vai a genio
sarebbe capace di accoltellarti dietro l’angolo. Ella è, tuttavia, armata di
sole chitarre ed è venuta per cantare e suonare.
La partenza è al calor bianco. Un paio di cover inusuali, “Love Me Two Times”
dei Doors e “Oh Darling” dei Beatles, sottolineano il debito che anche la musica
più mainstream deve al blues. La chitarrista romana è una che rischia sulla
propria pelle ed infila, senza cedimenti, brani usciti dalla sua penna in mezzo
a classici del blues. Belle le sue “Making Miracles” e “Teaching While I Learn”.
Altrettanto affilate sono la versione minacciosa di “Devil Got My Man” di Skip
James e “How Long Blues” di Leroy Caar. I brani sono presentati con aneddoti
delle sue peregrinazioni musicali che la vedono spesso protagonista all’estero.
Per superare la meraviglia che comunque suscita il personaggio, canta “Roman
Blues Woman”, quasi un gramelot dal solido groove - pure di suo pugno -
certificazione d’identità coi fiocchi. A metà percorso giunge un insolito
siparietto. Accompagnandosi con l’ukulele canta “They’re Red Hot” di Robert
Johnson, una tutt’altro che cinematografica “I Wanna Be Loved By You” di Marilyn
Monroe e “Something”, ancora Beatles dall’intonazione granitica. Numerosi sono i
tributi a Janis Joplin, come nella “Mercedes Benz” riveduta e corretta in cui la
voce campionata dell’icona del flower power si unisce allo slide e canto della
De Fazi. Dopo un’ostica “Driftin’”, brano hendrixiano minore, e una canonica
“Can’t Find My Way Home” di Steve Winwood, si giunge allo scoppiettante finale.
“Mighty Tight Woman” di Sippy Wallace, il traditional “Good Rockin’ Daddy” e “20
Fligh Rock” di Eddie Cochran, sono tutte accompagnate dal pubblico con mani e
piedi. Le insistenti richieste di bis vengono soddisfatte solo da “What Good Can
Drinkin’ Do”, ancora un cavallo di battaglia di Janis Joplin, cantato con
lirismo e trasporto.
Massimo effetto con minimo sforzo e minima spesa. Come accade spesso con altri
artisti solitari, Francesca De Fazi si aiuta con un campionatore a pedale per
stratificare chitarre, ottenere maggiore spessore sonoro e librare assoli
contratti ma efficaci. Nonostante ciò l’esibizione è rimasta molto naturale e
ispirata. Un gran bello spettacolo da una musicista dal talento garantito!
Max Pieri
healingmachine@yahoo.it
The Blues Day
(24 settembre 2005)
… Ho fatto tutto il viaggio con una voglia matta di arrivare prima possibile per
gustarmi e godermi una giornata intera di BLUES (povera mia moglie…) e arrivato
a Beinasco qualcosa comincia a vibrarmi dentro. Che sia il richiamo del Blues? …
Beh, in un certo senso…
È Luigi (Tempera) al cellulare che come al solito mi sgrida per il mio ritardo
ed ecco che in quattro e quattr’otto … e otto sedici (mi sono perso !!!) arrivo
al circolo Violeta Parra e la musica inizia ad avvolgere i miei sensi.
Dopo i saluti di rito con tutti, inizio a godermi lo spettacolo aspettando, tra
una birra e l’altra (sono solo le 16.00) l’arrivo del “mitico” Fiesta (ne ho
sentito parlare e ho letto di lui ma non lo conosco per nulla …) con cui io e
Luigi (Luis come lo chiama il Fiesta) dobbiamo suonare.
Sul palco si stanno esibendo i Sol Spezzato con, all’armonica la special
guest, Gianluca “ Giangi “ Cerutti: che tiro!!!
Dopo di loro… si jamma…
Arriva il Fiesta e dopo le dovute presentazioni, qualche prova per affiatarci un
attimo dato che è la prima volta che ci vediamo; sul palco intanto continua
l’alternarsi dei musicisti per la jam session.
Sergio (ebbene sì è questo il vero nome del Fiesta) è come me e Gigi, sanguigno,
passionale, anticonformista e assolutamente originale.
Tocca a noi, iniziamo con alcuni suoi brani per poi passare ad una versione di
“Voodoo Child” a mio avviso molto valida; ci divertiamo come bambini
ma
purtroppo il nostro tempo passa in fretta e così…
Nuova corsa, nuovo giro, nuovo regalo, salgono sul palco Fast Frank & The Hot
Shout Blues e danno vita ad un set in perfetto Chicago Style.
Fast Frank, che tipo, molto Blues con quella sua voce roca, nera e che dire
della chitarra? … la fa parlare!
Nel frattempo arriva Fabrizio Poggi e i suoi Chicken Mambo con due graditi
ospiti, due texani (con …cappello incorporato) che stanno andando in Svizzera
per una tournée.
Tra una chiacchiera e una birra arriva anche l’ora della cena allietata dalla
musica suonata dalla Terry Blues Band gruppo in cui milita, all’armonica,
Mauro “Plunz” Pionzio noto customizzatore di armoniche ed amplificatori
torinese.
La serata inizia con la presentazione di due libri: il primo di Marco
Ballestracci, “Il Compagno di
Viaggio”, nove racconti in Blues, e il secondo è
l’ultimo lavoro editoriale di Fabrizio Poggi “il soffio dell’anima: armoniche e
armonicisti blues”. Tocca ora all’esibizione dei Two Men Band, ovvero Luigi
Tempera & Fabrizio Poggi e il loro blues acustico a cui si affiancherà alla
fisarmonica Roberto Sacchi e alla chitarra Maurizio Fassino.
Ma ecco che arriva la fase clou della serata; è il momento dei Chicken Mambo e
del loro “folk” blues. Si inizia respirare nell’aria l’atmosfera della Louisiana
i suoni e le melodie si intrecciano e il concerto prende sempre più forma finché
non salgono sul palco gli ospiti texani il primo dei quali si lancia in una
“Pride & Joy” in puro stile americano.
Sinceramente mi aspettavo qualcosa di un po’ più originale…(in verità il
chitarrista cantante ha fatto “Pride & Joy” per fare piacere a tutti quelli che
erano lì quella sera e gli parlavano continuamente di Stevie Ray Vaughn e di
Austin).
La serata va avanti e in perfetto orario, alle 23.30, si da il via alla Jam
Session: 30 minuti di delirio in cui si intrecciano suoni, musicisti e atmosfere
fino ad arrivare ad una “Help Me” con 4 armonicisti sul palco che si scambiano
le battute uno con l’altro mentre gli altri componenti della “band” si alternano
ad entrare inseguendosi sul palco.
Un colore diverso è stato dato da Giulio Camarca e dalla sua chitarra che hanno
accompagnato una “Route 66” in versione jazzata.
Ancora un ospite prestigioso della scena jazz italiana, Luigi Tessarollo, che
propone un trascinante Boogie-Woogie.
Il grande Tempera ha colpito ancora… e porta a casa un altro successo.
È stata una giornata splendida, intensa e veramente ricca di Blues, a tutti i
livelli. Speriamo di ripeterla anche gli anni a venire o di avere la possibilità
di partecipare ad altri Blues Day in altre parti d’Italia.
Harmonically your
Fabio “Kid” Bommarito
8°
FESTIVAL BLUES CITTA’ DI BRINDISI
23 – 24 luglio 2005
Le
buone notizie di questi tempi sono più he rare, indi aver constatato che la
città di Brindisi ha ristabilito la vecchia regola delle due serate in Blues,
non può che far piacere. Diciamolo subito, è stato un successone di pubblico che
ha gremito completamente piazzale L.Flacco in entrambe le serate. Si incomincia (23 luglio) con i
Trinity, formazione barese in attività dal 1997. Bob Cillo alla
chitarra - Gianni D'Erasmo basso e voce - Marcello Macagnano alla batteria; mi
hanno invitato a suonare l'armonica e il nostro set legato all'urban blues è
stato molto apprezzato. Nei 40 minuti a disposizione, abbiamo proposto anche
brani inediti con la solita grinta che contraddistingue il power trio pugliese.
A seguire, i suoni si sono ammorbiditi con l'esibizione della Back in Blues
Band. Gli undici soul brothers milanesi, con il loro sound corposo e brillante,
hanno proposto un set collaudato nei minimi particolari. Dotati di un ottimo
front-man, hanno fatto ballare la folla con i classici di J.Brown e O. Redding
senza perdere un colpo.La prima serata si è conclusa con l'esibizione della
cantante Aida Cooper. Dotata di una straordinaria voce, roca e potente, ha
proposto un set musicale ad ampio respiro in bilico tra il soul ruffiano e il
funky, districandosi con maestria in autentici tributi: davvero coinvolgente "Summertime"
di J.Joplin.Nelle file della sua band, i Nite Life, da menzionare il
chitarrista Paolo Manzolini, protagonista di assolo secchi e pungenti mai fini a
se stessi.
La seconda serata ( 24 luglio) è stata caratterizzata da artisti Americani. Alle
22 è salita sul palco Rev. Rabia. La singer Californiana, sola con la sua
chitarra
acustica, ci ha regalato un set di rara maestria. Il suo country/blues è quello
calpestato da Menphis Minnie, Leadbelly, Rosetta Thorpe. Le ho invidiato
l'esecuzione spavalda di "Love in Vain" di R.Johnson. A seguire, sul palco uno
strepitoso ed indiavolato Brian Templeton. Il cantante- armonicista di Boston
nei 30 minuti a sua disposizione, ha scaricato sulla folla un blues elettrico di
rara potenza ed efficacia che mi ha quasi fulminato. La stessa formazione di
base ( chitarra-basso-batteria-armonica) altro non è che la band di Sonny Rhodes.
Nell'olimpo del blues, il sessantacinquenne Sonny, siede accanto ai pochissimi
"grandi" rimasti dell'ultima generazione. Presentato dalla sua band, il
chitarrista texano è entrato in scena tra gli applausi scroscianti del folto
pubblico. Elegantissimo come sempre, si è tolto la lunga giacca bianca
appoggiandola su una sedia, ha imbracciato la chitarra e ci ha insegnato come si
suona il texas/blues. Cappello rosso in sintonia con le “shoes” di vernice rossa
e maglietta in tinta a spalla larga, ci ha donato due ore di musica ipnotica,
suonando anche la laap-steel. Il culmine è stato raggiunto sul funky ostinato di
chiusura, dove nonno Sonny si è offerto alla platea arrivando a piedi fino alla
scalinata del piazzale cantando, mentre tutt'intorno il pubblico festante lo
osannava. Risalito sul palco, ha salutato uno ad uno i suoi musicisti baciandoli
sul capo, come un padre fa con i propri figli. Mi sono commosso. Che ci volete
fare! Il blues è anche questo.
Martino Palmisano
Guilty Hearts + John
Schooley
Live at Bluestage 29 Settembre 2005
Il Bluestage di Linarolo (a pochi chilometri da Pavia, vicino Belgioioso)
comincia il primo mese di programmazione offrendo concerti di qualità altissima
che vanno dal blues più rurale, al rock-blues figlio di Hendrix e Vaughan, fino
al jazz e alla cocktail music: è un locale di musica rigorosamente suonata dal
vivo e il 29 settembre di vita ce n’è stata tantissima.
Sul palco Guilty Hearts e John Schooley, per l’unica data italiana di un tour di
due mesi in Europa senza una pausa.
Arrivano direttamente dalla svizzera con il loro furgone amaranto. L’attesissimo
concerto comincia alle ore 23:00 con i californiani Guilty Hearts: trio due
chitarre e batteria con facce da tagliagole messicani, sparano un sanissimo punk
rock degno di un film di Tarantino. Un buon concerto duro, roccioso e compatto,
una versione di Tito & the Tarantula semplicemente punk.
Dopo una breve pausa, i fonici del locale armeggiano sul palco con il nuovo set
di batteria… La locomotiva sale sul palco, un vero treno in corsa a far tremare
i tanti boccali di birra tra le mani del pubblico.
Un grande batterista e percussionista, un cantante che sa usare benissimo il suo
blueseggiante accento texano, un chitarrista che conosce le radici della musica
afro-americana, un bassista che non si ferma davanti a nulla e un armonicista
incisivo. Mai sentita una band così compatta, forse perché John Schooley fa
tutto da solo.
Non è tanto fondamentale esaltare il polipo polistrumentista nativo di Austin,
quanto la sua energia e il suo calore; Jon Spencer ne sarebbe invidioso. Cover
“distrutte” dei primordi del blues e veramente ottimi e coinvolgenti brani
inediti. Basta ascoltare il suo ultimo CD omonimo “John Schooley and his one man
band” uscito per la Voodoo Rhythm Records: Rufus Thomas, Jimmy Reed, Howlin’
Wolf come non li avete mai sentiti.
Schooley è inarrestabile: macina letteralmente il Delta blues e il punk
mescolandoli e rovesciandoli su di un pubblico rapito e affascinato. Dopo quasi
due ore, John vorrebbe scendere a bere con noi l’ennesimo Jack Daniel’s, ma non
gli viene permesso di abbandonare la posizione: per ben quattro volte il
generale del Rock’n’roll lo trattiene nella trincea della sua musica, una musica
testarda come il mulo che simboleggia sul suo logo.
La notte italiana dei nostri continua fino a tardi. Il Bluestage, nuovo tempio
del Blues, è stato già profanato dal primo mese… dall’essenza del Blues stesso.
Il mattino dopo il furgone amaranto riparte: la stessa sera Lubiana “soffrirà”
l’attacco di John Schooley e dei Guilty Hearts.
Marcello Blues Milanese
Arcon Blues
Festival 22/07/2005
Chions è un piccolo paese
friulano in provincia di Pordenone. La gentilezza e l'ospitalità sono le prime
cose che si percepiscono. La direzione artistica
del
Festival, composta anche da musicisti come Fabio Verardo ed Andrea "Jaguar"
Biasotto, non fa
eccezione e comprende al volo ogni tipo di esigenza pratica dei musicisti
partecipanti. In cartellone ci sono la New Young Blues Quintet e Jimmy Joe
Band (foto).
Il 22 luglio, all’imbrunire, le nubi ed i
tuoni all'orizzonte non promettono niente di buono. Apre la serata la New Young
Blues Quintet, i cui componenti sono tanto bravi quanto affiatati. Dopo qualche brano, le prime gocce d’acqua si trasformano in una
vera pioggia battente. Il pubblico tiene duro ma sotto una pioggia divenuta
ormai torrenziale si decide di interrompere e successivamente concludere (tra i
calorosi applausi) questa particolare edizione del festival rimandando tutto
all'anno prossimo e confidando in un pizzico di fortuna in più. Certo è stato un
vero peccato non aver potuto utilizzare un bellissimo teatro a pochi passi dal
palco… Così, da
spaghettaro quale sono, ho
colto
l’occasione di rivolgere qualche domanda alla direzione artistica:
S&B: cosa vuol dire organizzare un festival blues?
Andrea: Organizzare un festival significa innanzitutto amare il Blues.
Quando questo passo è fatto allora tutte le avversità che si presentano sono
superabili. Pochi soldi? Poca visibilità? Poco appoggio? Sono relativi se si
trova la voglia di “fare il festival”. Per noi è un'occasione per portare la
musica nera in una zona in cui essa non è molto conosciuta, un'occasione per
condividere questo amore con altra gente... questo è per noi organizzare l'Arcon
Blues Festival.
S&B: perché il nome ARCON Blues Festival?
Andrea: Il nome Arcon Blues Festival deriva dal nome del canale che circonda
il piccolo paese di Chions che ospita la manifestazione. Esso è proprio l'Arcon
ed il palco sul quale si svolge il concerto è pochi metri distante dal canale
stesso.
S&B: Quali progetti avete in mente per la prossima edizione del Festival?
Andrea: L'Arcon Blues Festival è oramai arrivato alla sua quarta edizione e
stiamo pensando sia il momento di “salire” per quanto riguarda la caratura
degli artisti nella speranza che ciò comporti una maggiore visibilità della
manifestazione e un maggiore successo di pubblico. Già quest'anno, anche se
senza l'aiuto del tempo, abbiamo avuto il noto organista e pianista Armando
Battiston (foto) e il famoso Jimmy Joe che speriamo di riavere il prossimo anno in
quanto la pioggia non gli ha consentito di salire sul palco.
Guido
Destradi
John Hammond Jr. –
Roma Blues Festival 23/04/05
Nella
cornice dell’Auditorium Parco Musica della capitale si è svolta la prima
edizione del “Roma Blues Festival” il cui cartellone prevedeva la presenza di Bo
Diddley, John Hammond Jr. e Blind Boys of Alabama. Ho avuto la fortuna di
assistere ad un’affilata esibizione di Hammond durante una tiepida serata di
fine aprile. Infatti, alle 20,00 del giorno 23, ero già di fronte alla faraonica
costruzione dell’architetto Renzo Piano, in un’atmosfera sacrale ma non
particolarmente agevole per un appassionato di blues. Attraversato Largo Berio,
si giunge alla biglietteria dove uno schieramento di hostess e steward
sorridenti attende di essere interpellato con richieste d’informazioni. Dopo
l’acquisto del biglietto, mi faccio spiegare dov’è l’Area Archeologica, in cui è
allestita la mostra fotografica di Paolo Cavalcanti “Blues in Chicago”. Nella
zona antistante la mostra, video-proiettano “The Soul of a Man” di Wim Wenders.
Come inizio non sarebbe male, ma dopo alcuni minuti ho già terminato la visita.
Sebbene bella ed evocativa, la rassegna è veramente striminzita (non più di una
dozzina di scatti). Così, anche se manca mezz’ora all’inizio, mi avvio verso la
location del concerto, attraversando il foyer dell’auditorium fra gigantografie
di orchestrali a me sconosciuti. Il pubblico all’ingresso è quello solitamente
variegato del blues ma, nell’atmosfera algida della Sala Sinopoli, tutti
sembrano attoniti e compassati. Sul palco spropositato ci sono solo 2 microfoni
e uno sgabello.
Alle 21,15 circa si abbassano le luci, una voce pre-registrata ci ricorda di
spegnere i cellulari e che è vietato filmare e scattare foto durante il
concerto. Dopo qualche minuto arriva John Hammond Jr., pur essendo un pezzo
d’uomo sembra quasi una foto riduzione per quanto è grande il palco. Saluta, si
siede e attacca a suonare senza tanti preamboli. Anche se bastano pochi secondi
per capire che stasera non si suona Brahms, l’acustica della sala è così
eccellente che Hammond ci mette un po' prima di “sporcare” adeguatamente
l’atmosfera e trasportarci di peso sulle sponde del Mississippi. Lotta con il
dobro, percuotendolo animosamente con il bottleneck. Soffia come un mantice
convulso nelle sue armoniche. Si dimena senza posa, tanto da far cadere, più di
una volta, un’altra chitarra sistemata su un sostegno al suo fianco. Siamo al
quinto brano quando arriva “Fool For You” di Ray Charles e finalmente abbiamo
dimenticato il posto dove ci troviamo. “Fattening Frogs For Snakes” di Sonny Boy
Williamson II è solo il preludio per una minacciosa versione di “Time To Say
Goodbye”, brano di B.B. King con cui Hammond inchioda tutti alle poltrone.
Oramai in completo relax, il chitarrista americano pesca a piene mani dalle sue
ultime produzioni discografiche, inanellando interpretazioni ora scintillanti
come in “Some Day Baby” di Lightnin’ Hopkins, ora abrasive come in “Get Behind
the Mule” di Tom Waits. Con “The Spider And The Fly”, episodio minore della
coppia Jagger-Richards (da qualche tempo nel repertorio Hammondiano), la
performance vira verso lidi più temperati e il pubblico mostra di apprezzare,
“azzardandosi” a battere il tempo con le mani. Una devastante versione di “How
Many More Years”, sempre a firma Chester Burnett, alza ulteriormente la
temperatura. E’ interpretata con grande determinazione e un groove talmente
solido che potrebbe durare mezz’ora senza stancare nessuno. Hammond, per quanto
non particolarmente prolifico come autore, è un interprete sopraffino.
Giganteggia, occupando tutto lo spazio e chiudendo il concerto con una manciata
di classici, eseguiti in punta di dita. Fra tutti spiccano le conclusive
“Phonograph Blues” e “I Can’t Be Satisfied”. Infine prende chitarre e armoniche,
ringrazia e se ne và. E’ passata quasi un’ora e mezza e nessuno se n’è accorto.
C’è solo il tempo per un paio di bis durante i quali esegue una versione
“stracciabudella” di “Fannin Street”, brano scritto appositamente per lui da Tom
Waits. Al momento di congedarsi, nonostante abbia evocato gli spiriti del
firmamento down-home, mantiene un imprescindibile understatement. Probabilmente
è l’unico bianco al mondo in grado di tenere da solo una performance così
intensa con voce, chitarra e armonica.
L’uscita dal concerto è un brusco risveglio per tutti. Veniamo proiettati
nuovamente nell’atmosfera siderale dell’Auditorium. Vorrei godermi per un po’ le
altre video-proiezioni di contorno ai concerti. Tuttavia, dopo un quarto d’ora
di “The Road To Memphis” di Richard Pearce, veniamo cortesemente invitati ad
uscire da uno steward che sembra un legionario. Sono le 23,45 e anche i cancelli
esterni cominciano ad essere serrati. Mi avvio sconsolato verso il “Blues Bar”,
allestito appena fuori dell’Area Parco. Tutto sembra ricordare tranne “…i
Ballrooms neri degli anni ’50…”! I prezzi sono affilati come coltelli, il
personale è anche troppo spiccio e la musica stenta a scaldare gli animi. Per
ritrovare un po’ di Blues mi devo allontanare notevolmente dal Parco della
Musica. Devo tornare a respirare i vapori venefici e appiccicosi della strada,
laddove - nei pressi di un parcheggio - incrocio lo spettro di Bukka White di
fronte ad un furgone che reca la scritta “Da Tonino il Re della Porchetta”.
Max Pieri
(Commenti e pallottole a healingmachine@yahoo.it)
Sunset and Blue -
Oddly Shed,
Caserta 8/4/05
L’8 aprile presso l’Oddly Shed di Caserta, i Sunset and Blue hanno presentato
agli amici e al pubblico il loro primo lavoro discografico “Faced To The
Sun”, disco nato, soprattutto, dal reciproco rispetto delle idee e del bagaglio
culturale di ognuno dei componenti, dall’affiatamento e dalla sincera amicizia
che li lega. Loro stessi sono i compositori e gli arrangiatori dei 10 brani
presenti nel cd che è stato definito …il blues dei vicoli “made in Partenope”…
che, grazie al suo retrogusto “a fronna ‘e limone”, sta conquistando piazze e
cuori. Un disco impastato nel sudore dello shuffle e nel brivido del cosmic
blues, nell’asfalto di tutte le roads e nell’erba di tutti i cotton fields di
questo mondo.
Ma ritorniamo al concerto. Vista la massiccia affluenza di pubblico (circa 300
persone) la serata assume subito la dimensione di un grande evento.
Malgrado un’amplificazione inizialmente mal settata dal fonico, le cose sono
progressivamente migliorate fino a raggiungere buoni livelli, consentendo ai
Sunset di regalare sonorità ed atmosfere molto piacevoli. Gaia Fusco con la sua
voce graffiante e, al tempo stesso, suadente riesce a coinvolgere il pubblico da
subito.
Il concerto si apre con The Way I Love You. I brani si susseguono a ritmo
serrato: No Good Enough, Boogie Lies, Mr.Cook, Just One More Time, Faced To The
Sun (la ballata che da il titolo al cd con un superbo mandolino di Iacopo
Bartiromo), That Night (dove i fiati Silvio Amoroso, Mario Tammaro e Daniela
hanno sparato, con stupefacente sincronismo, raffiche di note) per finire con la
struggente Blues On My Mind.
Tra le cover è doveroso citare la raffinatissima interpretazione, profonda
quanto eccentrica, del brano Ball And Chain, cantata sempre da Gaia Fusco.
Cosa
dire della band? Nicola De Luca alla batteria ci ha regalato ritmi strepitosi;
Giacomo Pedicini al basso è riuscito a trasmetterci un groove e un sound
eccezionali; Enzo Caponetto ha dato colore e calore con la sua Telecaster;
Fulvio Sorrentino ha alternato con padronanza tecnica le sue chitarre (Fender
Strato, Gibson e dobro); Gabriele Del Vecchio (tastiere e Hammond) ha, come al
solito, dipinto di blues la serata con i suoi fraseggi delicati, eleganti ed
acusticamente impeccabili.
Infine la Jam! Gaia invita sul palco gli amici-musicisti presenti fra il
pubblico: Guido Migliaro (armonica-voce-chitarra), Umberto Sirigatti (basso),
Peppe Farace (chitarra), Geremia Tierno (batteria). E’ una macchina da Blues
quella che suona, proponendo brani storici come Blues Shadow, Blind In The Love,
I Been To Giorgia, Black Water, etc..
Tutto quello che ci saremmo aspettati da Gaia e dalla sua band ce lo siamo
trovati qui, in un concerto ricco e piacevolissimo. Ancora una volta il Blues
diverte, unisce, emoziona, come tutta la musica suonata col cuore.
Angelo Agrippa
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